sabato 27 aprile 2013

Ci riprovano con le armi chimiche. Ieri in Iraq, oggi in Siria



Nel momento in cui l’esercito siriano riconquista importanti postazioni strategiche e l’anarchia regna tra le frange islamiste dell’Esercito Libero, spunta la presunta svolta dell’Occidente che giustificherebbe un intervento armato in Siria, legato all’utilizzo “probabile” di armi chimiche da parte del governo. Nonostante lo stanziamento di 123 milioni di dollari a sostegno dell’Esercito Libero per quelle che la Casa Bianca ha definito operazioni “non letali”, si tenta la consueta strada della presunzione di colpevolezza, la stessa che vide nel febbraio 2003, Colin Powell sventolare all’Onu una provetta per dimostrare la presenza di armi chimiche in Iraq, provetta che in realtà non conteneva nulla. L’anno successivo fu lo stesso segretario di Stato a riconoscere l’inattendibilità delle prove. In realtà, nessuna arma chimica è stata mai trovata sul territorio iracheno. Buona fede? Già prima dell’inizio del conflitto, l’ispettore Scott Ritter aveva annunciato che l’Iraq non possedeva armi chimiche, biologiche o nucleari, così come il Christian Science Monitor aveva riferito che il programma di distruzione di massa era terminato nel 1991e l’Iraq Study Group della Cia - dopo l’invio di 1.750 esperti - non aveva trovato nessun sito sospetto. Supposizioni che hanno aperto la strada al genocidio di 1 milione di iracheni e alla destabilizzazione dell’area.

Il “probabilmente” della Casa Bianca. Ennesimo conflitto delle probabilità
Nessuna certezza, nessuna verifica, solo l’ipotesi sostenuta da Gran Bretagna e Usa. La voce diffusasi in seguito alla testimonianza di un ufficiale israeliano che avrebbe visto persone con la schiuma alla bocca. Una guerra d probabilità, esattamente come in Iraq, in cui i media occidentali giocano sui grandi titoloni, ma sono costretti ad ammettere che l’uso – sempre probabile – sarebbe “limitato” e non su vasta scala. Come dire, per ammazzare poche persone la Siria fa il gioco americano e crea il pretesto per un intervento.
La richiesta del governo siriano è invece chiara: includere esperti cinesi e russi nella Commissione di ispettori e soprattutto rendere note le violazioni nell’uso di armi chimiche da parte dei ribelli. In particolare si chiede di indagare su quello che è stato additato come uno dei luoghi del crimine: il villaggio di di Khan al-Assal, nelle campagne di Aleppo, dove il ministro Omran Ahedal-Zouabi punta il dito contro i ribelli e chiede di approfondire l’aspetto legato all’arrivo delle armi non convenzionali dalla Turchia. Proprio dalla Turchia, alleata all’Occidente nella lotta ad Assad. L’invenzione preventiva, già ampiamente collaudata, per gettare in realtà ombra e silenzio sulle azioni imbarazzanti dell’ESL? E perché, per una maggiore credibilità, non inviare una Commissione indipendente in cui abbiano un ruolo anche esperti di Cina e Russia?
La linea rossa varcata dai ribelli
Creerebbe imbarazzo ammettere che l’uso di armi chimiche sia venuto dagli stessi liberatori sostenuti dal coro occidentale. A marzo una commissione di esperti dell’Onu aveva raggiunto, su richiesta di Assad, la Siria per indagare sulla presunta violazione del diritto internazionale dopo l’uso di CL17 ad Aleppo, in un’area vicina ad Al-Bab, quartiere controllato dal gruppo jihadista Al-Nusra. Nella strage erano morte 26 persone, tra cui numerosi componenti dell’esercito lealista, e c’erano stati 110 feriti. Il governo siriano aveva fortemente caldeggiato le indagini, concluse con una bolla di sapone nei primi giorni di aprile: non si erano trovate, guarda caso, informazioni rilevanti. Propaganda prezzolata quella del NYT, megafono americano anti-Assad, che in questi giorni ha parlato di mancata verifica a causa del veto posto all’entrata dell’Onu. Si assiste a uno scenario noto in cui la menzogna sistematica delle lobbies delle petro-monarchie e degli Usa è usata per esercitare pressioni politiche ed economiche e per minare la sovranità di uno Stato. Copioni noti.

Una chiosa. Sullo stato dell’informazione in Italia
Dopo essersi abbeverati alla fonte della verità dell’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, una bufala smascherata persino dal NYT al soldo dell’Europa e delle petro-monarchie, i media provano a confondere le acque. «Siria, insorti: "Liberati vescovi ortodossi. Sequestrati dalle forze di Assad"», titolava qualche giorno fa la Repubblica. Stesso copione altri giornali, dopo che la notizia era stata battuta in questi termini dalle principali agenzie di stampa italiana. Chi segue la questione siriana attraverso la stampa estera locale e le agenzie cattoliche si è trovato di fronte a un chiaro esempio di manipolazione di guerra. La scelta di riportare le dichiarazioni degli “insorti” per sviare la responsabilità, ma soprattutto per presentare l’ESL come un esercito di liberatori. Quale sarebbe il senso del rapimento di alleati da parte delle forze governative? I cristiani della Siria sono strenui difensori della laicità dello Stato siriano e denunciano da due anni le violenze del fantomatico ESL e delle frange che in alcune aree hanno imposto le fatwa (esemplare il diritto a violentare le donne cristiane ad Aleppo). Fonti siriane e agenzie cattoliche confermano che il rilascio dei vescovi non è avvenuto e che il rapimento è opera di integralisti islamici che hanno lo scopo di chiedere riscatti e favorire la divisione su base religiosa. Un’informazione che non verifica e mostra gravi lacune, ma soprattutto che dà la chiara impressione di voler manipolare l’opinione pubblica. In tutte le guerre, un topos che si ripete, i media al servizio delle lobbies e dei loro interessi. La Siria dovrebbe aprire una finestra sulla credibilità dei media italiani.

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