domenica 19 settembre 2010

Il Mediterraneo "cimitero d'acqua", tra passato e presente


C’è stato un tempo in cui le rotte del Mediterraneo erano invertite. Dall’Italia si raggiungeva la Libia, per conquistare, per portare la “civiltà”, per “ritornare” dove era stata Roma, per aprire nuove strade all’immigrazione italiana. Un tempo nemmeno lontano, dimenticato, chiuso per comodità nel dimenticatoio o forse semplicemente tralasciato, come si ignora il passato di un’Italia che fino a qualche decennio fa emigrava.
Si andava in Libia arrogando diritti antichi, cercando le similitudini morfologiche, climatiche e persino somatiche soprattutto con i siciliani, si chiedeva un’Unità ancora più “dilatata” che comprendesse la conquista dell’altra sponda e di tutto ciò che era stato romano. La stessa posizione dell’Italia nel Mediterraneo, lungo ponte tra l’Europa e l’Africa, era un privilegio in chiave di spostamento di uomini.
I tempi cambiano, le idee restano, forse semplicemente si invertono. I libici cercano la loro “Terra Promessa” in Italia, la stessa che invocavamo noi in uno scambio di ruoli che oggi può sembrare paradossale. Perché c’è uno strano paradosso in tutto questo, c’è una strana inquietudine che non nasce solo da una considerazione storica, ma dalla lenta agonia del senso di umanità, la stessa che non sembra essere contemplata degli accordi italo-libici sul respingimento degli immigrati.
Qualche giorno fa Rocco Buttiglione, intervenendo alla rubrica “Il caffè” di Corradino Mineo, ha rassicurato gli italiani: “Alla Libia abbiamo dato navi, armi e munizioni”. Non sembra ci siano regole di ingaggio che contemplino l'intervento con armi da fuoco verso imbarcazioni pacifiche. Non sembra.
Sull’episodio della motovedetta libica che ha sparato sugli italiani il ministro Maroni ha chiuso la questione con un: “Pensavano che a bordo ci fossero dei clandestini”. Come se fosse lecito e normale sparare ad altezza uomo agli immigrati.
Qualcuno avanza l’ipotesi dell’avvertimento: non addentrarsi nella zona grigia, dove i respingimenti avvengono con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Ci sono in ballo interessi economici.
E così viene da chiedersi se la stessa l’Italia che non vuole clandestini accetti che si lascino morire nel deserto disidratati o ammazzati nel Mediterraneo senza pietà; se l’Italia cattolica non debba fare i conti con la propria coscienza e anche seriamente. Oppure se esistono morti di serie A e morti di serie B. Ma qui si smarrirebbe l’essenza dell’uomo stesso. Come dire, abbiamo perso l'umanità ma continuiamo a cercare Dio.
C’era un’antica e tetra leggenda sui morti nel Mare Nostro, lu scïò, «una cortina plumbea di montagne nere», non formata da nuvole, ma da «una ressa di miliardi d’anime accorse da ogni mondo e compresse l’una sull’altra in tal maniera che forarne lo strato è impossibile», la «spada di Dio», mossa da «una suprema giustizia» che fa colpire solo quelli che meritano, che raccoglie le anime di «quelli a cui noi marinai facemmo torto in vita», ma anche degli spiriti dei «nemici vivi e di tutti coloro che vogliono nuocere ai marinai» perché «è il demonio che ve li incastra».
Con queste parole, dense di inquietanti suggestioni, lo scrittore Milanesi raccoglieva, nel lontano 1918, la leggenda raccontata da un marinaio di San Benedetto. L’idea del Mediterraneo come immenso «cimitero d’acqua», luogo di morte più che di vita, permea la letteratura del Novecento: mare brulicante di sacchi di cadaveri, teschi comparsi sulle rive del mare nostro, la corrente infinita descritta da Pascoli che “recava le voci di Menfi, di Babilonia, di Ninive, di Atene, di Pergamo, di Alessandria, di Hierosolima”, le ombre del mare che rievocano i combattimenti di Roma e Cartagine.
Per la stesso, a tratti inquietante, capovolgimento di prospettive, ci abitueremo ad ascoltare voci provenienti dalle “antiche sponde libiche”, quelle per cui gli italiani hanno un tempo versato il sangue. In fondo, le voci degli uomini sono tutte uguali. Solo le voci.

venerdì 10 settembre 2010

“Neonata tolta alla madre povera”. L’Italia dei buonismi di massa?


Si fa presto a giudicare. E si fa ancora più presto a vendere una notizia con titoloni capaci di attirare l’attenzione dei lettori. In un improvviso e vorticoso giro di pensieri, scatta il buonismo italiano. Tutti si indignano, tutti gridano che è vergognoso, tutti sbraitano contro lo Stato e le sue inefficienze, e poi, tutti tornano sereni e tranquilli dimenticandosi dell’avvenimento.
“Neonata tolta alla madre perché povera”. La notizia è di luglio, gli sviluppi recenti. Il Tribunale di Trento ha dichiarato la neonata adottabile ed ha iniziato un affidamento preadottivo. Al di là delle considerazioni e dei tempi prettamente giuridici, la riflessione dovrebbe scavalcare “il titolo” in sé e allargarsi a più considerazioni.
Va bene che la giustizia in Italia non sempre funziona, ma l’informazione non dovrebbe limitarsi a fare audience, come accade sempre più spesso. L'assessore provinciale alle politiche sociali della Provincia autonoma di Trento, Ugo Rossi, già a luglio, in una lettera indirizzata al ministro Carfagna, aveva sottolineato che non era corretto pubblicare notizie che andassero “a screditare il lavoro del Tribunale e dei servizi sociali accusati di faciloneria, insensibilità e ingiustizia. Non possiamo far passare il messaggio che e' sufficiente essere economicamente in difficoltà per vedersi sottrarre un figlio o che le Istituzioni puniscano anziché aiutare le persone indigenti'”.
Il nocciolo è tutto qui: non far passare il messaggio che la povertà sia un pregiudizio. Non mi sembra che in Italia lo sia, tanto meno che si sottraggano facilmente figli alle madri. Anzi, si può affermare il contrario. Spulciando in giro per news, si trova solo qualche timido cenno alle relazioni stilate dai servizi sociali precedentemente il parto, all’instabilità e “povertà” emotiva, alla fragilità della donna. Bisognerebbe conoscere i dettagli, ma in Italia interessano a pochi. E’ più facile darci dentro coi luoghi comuni e i pregiudizi, prendersela con lo Stato e la giustizia, quasi a fare del singolo episodio uno sfogatoio personale. E qui sono d’obbligo due storie vissute.
G. , 7 anni, cammina ogni mattina per i vialetti della scuola tra le parolacce della madre, sottolineo italiana, una litania che l’accompagna fino all’entrata in aula, tra gli sguardi indignati dei buonisti e i vani tentativi di segnalazione. Disagi familiari, disturbi del comportamento, occhi spenti mentre cerca di giocare in giardino prendendo a botte i compagni di classe.
M., 7 anni, cucina il ragù, si prende cura del fratellino di 2 anni, sa preparare la torta di zucca, come nella tradizione del suo Paese. L’hanno vista andare a fare spesa con un orsacchiotto tra le mani quando scendeva la sera. Non ha un’infanzia, si legge questo nei suoi occhi.
A quest’età, le lungaggini burocratiche ti tolgono il diritto a vivere serenamente la parte spensierata della vita, quella in cui dovresti imparare a sognare. In questi casi, tutti i buonisti pronti a invocare la soluzione inversa: perché i servizi sociali non ci sono? E lo Stato? Lo Stato ha fallito?
Non si tratta di giudicare, ma di valutare. L’Italia delle soluzioni facili è sempre a portata di mano e, aggiungerei, di click. La maternità è un diritto, ma ancor di più l’infanzia.
Forse basterebbe solo un cambio di prospettive: il minore al centro degli interessi, sempre.

mercoledì 8 settembre 2010

L’Italia “inventata”, tra sentimentalismi e nostalgie



La Lega avanza anche nel centro Italia e Bossi invoca un ritorno immediato alle urne. Un fenomeno politico sottovalutato? Si potrebbe dire di sì. Alla fine degli anni Novanta, neppure tanto tempo fa, in un’intervista rilasciata a Paolo Rumiz, Carlo Tullio Altan considerava improbabile che l’idea di Padania attecchisse nell’immaginario italiano in maniera tale da influenzarne la vita sociale e politica.

Dopo dodici anni, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, il peso elettorale della Lega e la capacità di influenzare attraverso discorsi retorici e populistici moltissimi italiani lascia emergere il volto di un Paese che ripensa le sue stesse categorie identitarie.

Non c’è mai stato il tempo di “fare gli italiani” o forse gli avvenimenti storici hanno finito per indebolire l’idea stessa di Nazione. Costruita in maniera labile e in continua oscillazione tra nostalgie e invenzione di tradizioni, l’Italia è sempre più frantumata in un mare di spinte localistiche, dalla politica “urlata” della Lega, la degenerazione più evidente della crisi culturale italiana, a un Mezzogiorno che volge lo sguardo a un idilliaco passato.

Un Paese fragile, a due marce, sempre più rannicchiato in patine nostalgiche, dove la globalizzazione finisce per marcare localismi e rimpianti. E proprio nella fase in cui si chiedeva al sistema partitico italiano uno sforzo per combattere la crisi, per accettare la sfida dell’Europa, per imprimere coesione al Paese, si sono smarriti i ruoli di mediazione. La società civile non si sente più rappresentata; in una spirale vertiginosa, partiti, sindacati e istituzioni socioculturali hanno perso credibilità.

Ci stiamo abituando a vedere lavoratori inventare nuove forme di protesta, nella completa indifferenza delle istituzioni; ai giornalisti e agli intellettuali si chiedono alternative valide, quelle che dovrebbero far parte di un programma politico, alla gente comune il contenimento della rabbia o l’improvvisazione di soluzioni. In questo quadro sconcertante, l’Italia “inventa” le sue tradizioni, per dirla con Hobsbawm e Gellner, o riesuma nostalgici richiami a un passato perduto, fatto di glorie e successi, utilizzandolo in chiave fortemente emotiva.

Un magma confuso di sentimenti e inquietudini, su cui la Lega Nord ha saputo costruire una demagogia fatta di demonizzazione di un “nemico” generico e/o specifico verso cui far confluire le paure e i dubbi spesso generate dalla necessità di ripensare la società. Ora gli immigrati irregolari, ora i comunitari, prima Roma ladrona, poi le moschee, il cous cous, i meridionali, altrove i gay.

Un movimento, la Lega, in realtà senza tradizione con un programma in cui si mescolano il richiamo a riti pagani celtici, come quello dell’acqua del Po raccolta in un’ampolla e versata nella Laguna di Venezia, la costruzione di un’area geografica caratterizzata da un idioma gallo-italiano, riti attinti dal passato come il giuramento di Pontida.

Alla fine, vince sempre chi fa leva sulle paure della gente, perché ognuno preferisce chiamare verità le cose che gli fanno comodo. Ri-pensare la storia d’Italia partendo dai localismi e dalle nostalgie?

Matvejevic direbbe che «il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia». Figurarsi un passato “inventato”.