venerdì 2 maggio 2014

Dacci oggi il nostro fb quotidiano




Dacci oggi il nostro fb quotidiano

Si doveva sempre sentire un po’ in imbarazzo, lo stesso che notava appiccicato sulla faccia di qualche interlocutore o un lieve, quasi impercettibile alito negli occhi, ogni volta che qualcuno nominava quella parola. Tutti si fermavano un po’ a respirare: un solo respiro che toglieva quasi un peso tra le grinfie di quella maledetta bestia che aveva contagiato il mondo. Fascebuk, feiscebuh, feicbuk… un termine, mille sfumature di percezioni. Già la pronuncia un tripudio di pregiudizi o semplicemente di esperienze. Frizzante, gioioso, cupo, pronuncia con accento sulla “oo” (poteva essere l’emoticon della faccia di un maiale?), un po’ francese, sempre poco inglese.
Si masticava nelle conversazioni, mentre al tavolino tutti controllavano le notifiche, parola che un tempo non avrebbe fatto dormire sonni tranquilli e che improvvisamente apriva le porte della curiosità: un apprezzamento? Un commento? Un richiamo? Una polemica? Si muovevano comunque emozioni, pensava sempre. Certo alienandosi dal contesto in un tram o alla fermata dell’autobus o in ogni luogo dove ci fossero più di due persone magari sconosciute – condizione ideale - era strano veder tirare dalla tasca o dalla borsa il cellulare e giù un mondo accattivante che succhiava il cervello. Ma lei aveva scoperto tante cose su fb: i ciuffi di carote e finocchi potevano trasformarsi in paté, c’erano staffette di libri in giro per le città, personaggi fino a poco prima sconosciuti - novelli maghi - trasportavano carrette di libri per amore della lettura. Aveva scoperto che le bufale non facevano solo mozzarelle e i troll non erano solo umanoidi delle foreste, che la sua vicina neanche la salutava ma continuava a mettere mi piace sotto qualche tiepido post (soprattutto quelli che riguardavano l’ambiente!). Un giorno dal balcone le era sembrato di vederla dal Suv sbirciare sul telefonino, mentre scaricava il sacchetto nel bidone sbagliato. Una sorta di deformazione della realtà, ma anche il sentimento contrario. Persone che non aveva mai conosciuto profondamente nella vita reale con cui si creava un legame che sapeva di complicità. Aveva scoperto che i giornali e la televisione spesso mentivano: un mondo crollato. “Ma come, lo hanno detto al telegiornale!”… quella frase aveva perso improvvisamente il suo valore perché qualcuno complottava dall’alto. Dall’alto? Non dei cieli, ma della terra? Luoghi imperscrutabili dove uomini decidevano le sorti umane e pure aliene. Ma anche luoghi più comuni, per esempio al tavolo della propria cucina: per fare una bistecca ci volevano 2.850 litri d’acqua, per un hamburger 2.400 litri ma la storia non cambiava se si passava al riso o al frumento. E quando improvvisamente appariva il link sponsorizzato dell’ennesimo disinfettante per bucato, per chissà quale arcano mistero, si accorgeva che due amiche del liceo aspettavano un bambino: c’era il segno del loro passaggio (Y) ! Le si aprivano sempre scenari tra lo sbalordito e il felice, mentre le notizie scorrevano veloci.
Nulla da dire su un limite che trovava condivisibile e che sua madre, dall’alto dei suoi settant’anni, guardando la schermata, aveva condensato in una quasi esclamazione con tanto di punto di domanda: “Ma sono morti o vivi?”. Le era venuto in mente un unico pensiero: “ :) ” (due punti parentesi, due punti P, due punti D). Persone immobilizzate, quasi nicchie che prima o poi sarebbero diventate di un cimitero. Quest’idea, effettivamente anche inquietante, si era affacciata la mattina che era morto un suo contatto. Contatto non aveva a che fare,ovviamente, nulla con la pelle o l'essersi toccati. Aveva persino pianto. Quel fiume di lacrime iniziava a delineare un confine che si riusciva a scavalcare. Si può piangere per uno sconosciuto? Sì, se ti conosce meglio del vicino, dell’amico che frequenti per andare a prendere l’aperitivo, del conoscente che incontri puntualmente girando l’angolo della strada per andare al supermercato e “buongiorno, salve, buonasera” senza sapere nulla di te. C’era tanta merda da spalare nella quotidianità. Il lavoro che pressava sempre e metteva tra colleghi l’ansia della disumanità, i sogni costretti continuamente a scavalcare burroni, un pianto greco di emozioni ripiegate un po’ ovunque, in ogni angolo non visibile alla melma. Sì, quello sconosciuto morto per Sla, era una persona che aveva raccolto le sue inquietudini, che le aveva strappato un sorriso, con cui aveva parlato prima del tempo meteorologico poi del tempo dei ricordi. E invece là fuori tutti a giudicare la bestia. All’occorrenza puttanaio o luogo di incontri, spazio per divertirsi o per approfondire, per fare politica o essere leggeri, dove ridere o litigare con la sindrome eterna del coniglio travestito da leone. Per lei nessun giudizio, valeva sempre la regola di sua nonna intenta a far scorrere tra le dita un rosario: “Tutti ti diranno che fare e persino il modo. Quando torni a casa tua, quando la notte sbadiglia, quella sei tu”.
Sua nonna era morta troppi anni indietro per poterle dire che le sue notti , più che sbadigliare, vomitavano solitudine. Non le portavano mai consiglio, erano solo madide di pensieri. A intervalli non pervenuti, qualche momento di ristoro e di sonno. Avrebbe però voluto dire a sua nonna che, ora che il suo cane era scappato, suo figlio andato via, l’ennesimo uomo uscito dalla porta di una casa a tratti invasa di preoccupazioni, ora si sentiva meno sola. E quella malattia, quel contagio, quella bestia, le restituivano – per sbaglio forse – l’illusione di vivere. La vedeva sua nonna snocciolare grani, immagine sempre nitida d’inverno davanti al suo braciere. E fine rosario, rigoroso amen.

Olga Tamburini