mercoledì 23 luglio 2014

Misera Eva!





Janet Wintherson capì la storia di Eva cacciata dal paradiso terrestre, quella specie di mondo incantato che funziona spesso solo nella fantasia, un giorno d’estate come tanti altri per caso. Almeno così sembrava in apparenza. Andava a seguire la 14esima conferenza di Theodor Anderson, uno bravo nel campo dei movimenti per la parità di genere, o forse comunicazione di genere o identità di genere. Erano almeno tre mesi che ogni sabato puntuale si piazzava nella saletta dalle sedie rosse di velluto e si poneva in posizione di ascolto. Odore di qualcosa di indefinito, quasi un altare. Palme in alto e rigoroso silenzio all’inizio di ogni seduta: bisogna trasmettere l’energia. Occhi chiusi, non riusciva a capire chi trasmettesse cosa a chi, ma sembrava si spandesse intorno una sensazione leggera. Col tempo l’effetto era andato scemando, abitudine forse, ma lei cercava di convincersi che intorno si sentisse qualcosa.
Quando compariva lui, Theodor Anderson, il mondo intorno spariva. Janet trascorreva i primi minuti in estasi, non sentiva la voce. Solo un silenzio sacrale attorno e due labbra che si muovevano, le sue, con un ritmo sensuale e coinvolgente. Guardava proprio lei, non c’erano dubbi! La guardava dal primo giorno dall’inizio alla fine, dalla comparsa sul palcoscenico di legno basso, fino a che Janet, Jan per gli amici o anche Jam per ricordare il profumo al sapore di marmellata che era solita spalmarsi addosso anni prima, si defilava lentamente come sotto un riflettore e sgusciava via. Ogni santo sabato da mesi. Di solito il torpore in cui sembrava cadere alla sua apparizione, svaniva di fronte a una parolina che Theodor pronunciava inequivocabilmente sempre e dopo pochi minuti dall’inizio della seduta, in tutte le svariate forme; verbo, aggettivo, nome. Aveva a che fare con la demeccanizzazione. Ora provate a ripetere senza emettere suono questa parola e capirete come Jan di colpo si trovasse ribaltata nella realtà. Lui parlava, tutti ascoltavano. Le donne pendevano dalle sue labbra. D-E-M-E-C-C-A-N-Z-Z-A-T-E-V-I-! Questo l’imperativo!
La voce non penetrava solo nella stanza e alle orecchie, toccava corde profonde. Sapeva di filosofia, poesia, psicologia. Conosceva l’uomo, lui, lo conosceva bene, Theodor. E guai a interromperlo! Il minimo rumore rompeva la magia e tutti intorno guardavano la fonte di disturbo con sdegno e apprensione: Theodor non era più ispirato dopo quel balordo frastuono? Lui rimaneva concentrato e molto scocciato, in silenzio, poi ricominciava a parlare. Le piaceva sentire la sua voce quando pronunciava la parola “donna” e poi un flusso di pensieri ammalianti la trasportavano altrove. Essere sempre se stessi, vincere le repressioni, le sovrastrutture, lasciarsi trasportare dal flusso di sensazioni, imparare a godere, sconfiggere la teoria del peccato. Il peccato era un concetto per punire non per liberare, ripeteva ossessivamente. E qual era stata la colpa di Eva? Addentare una mela? Voler assomigliare a Dio? Eppure Dio le aveva donato come punizione essere come lui: creare. Jan in quei momenti pensava sempre: “Aveva detto partorirai con dolore? Con l’epidurale e il cesareo abbiamo scavalcato pure Dio! Questa storia proprio non tiene”. Se ne era quasi convinta.
Quel sabato era stato speciale. Appena l’aveva vista Theodor aveva abbozzato un sorriso e alla fine della seduta, dove gli unici seduti erano loro, l’aveva invitata a casa sua. Le sembrava impossibile. Tra tante donne proprio lei, con i capelli simili a stoppa, un fisico che sapeva di legnetti di liquirizia da masticare, due tette appena abbozzate che non avresti scommesso un soldo potessero allattare, troppo timida, inibita, repressa… ecco, troppo meccanizzata avrebbe detto Theodor. Ma era stato tutto così spontaneo. Andremo a bere un drink, un aperitivo, un film. No, erano entrati e si erano cercati subito. Faceva l’amore come parlava, si era addormentata con questo pensiero Jam. Marmellata,confettura. Di ciliegie e fragole, mirtilli e lamponi. La storia potrebbe finire qua, il lettore sarebbe contento. Ma Janet si è risvegliata il giorno dopo. Anche Theodor ovviamente. Nessun cenno di affetto, nessuna coccola.
- Sei una donna strana, Janet. Ti chiami così?
- Sì, Janet per gli amici Jan o Jam perché…
- Non ti sei fatta scrupoli a venire a letto con me, senza sapere se avessi altre donne e altri legami.
Jam, sapore di limone tra i denti:
- Io sono single, gli scrupoli a limite sarebbero dovuti venire a te!
- E non hai chiesto informazioni sul mio stato di salute.
- Nemmeno tu sul mio, se è per questo.
- E sei anche stata volgare a farmi certe cose.
- Sembravano di tuo gradimento.
- E ti muovi anche in maniera meccanica.
Aveva ripreso i vestiti, Jam. A pensarci bene quella saletta dalle sedie rosse puzzava di muffa e Theodor aveva labbra sottili. Suo padre le ripeteva sempre che potevano diventare lame taglienti.
- Eva ha fatto bene a mangiare la mela!

domenica 6 luglio 2014

Homeless. Mancanza

Gli umani erano strani. Potevi trovarli a qualsiasi ora del giorno e della notte nei locali più strampalati. Sorseggiavano spesso caffè e bevande calde e d’inverno ci avresti lasciato le labbra attaccate al bordo delle tazze. Li potevi osservare dai vetri appannati e la sensazione di freddo sembrava per un attimo liquidarsi tra i colli lunghi rovesciati da finte risate.
Da laggiù si potevano guardare come da un osservatorio privilegiato. Gli umani uscivano dai locali, sempre quelli dai nomi strampalati, con la solita smorfia attaccata per qualche secondo al volto. Un tempo si era divertita a contare il tempo che intercorreva dall’uscita all’impatto col mondo freddo intorno: meno di dieci secondi sempre, poi si rimettevano addosso l’espressione con cui si facevano vedere al resto del mondo. Rimanevano chiusi un po’ tra il collo dell’impermeabile e il cappello, rabbrividendo per il freddo, poi si trascinavano l’ombra prima che la porta si chiudesse dietro le loro spalle. Con gli occhi socchiusi, le ombre si confondevano con le macchie scure prima del sonno, pensava Lucy. E d’inverno quelle macchie erano stranamente calde, a ricordare il tepore.
Londra risplendeva anche quel giorno di gennaio di un tiepido sole, quasi la comparsa offuscata di un chissà che stava chissà dove, dicevano al sud. Per trovare il meridione aveva letto su una rivista tradotta dall'italiano che bisognava indicare il punto in cui il sole raggiungeva a mezzogiorno il culmine, ma a lei sembrava quasi sempre offuscato da qualche nuvola. Forse funzionava in quello stesso altrove. In realtà quello era il momento in cui poteva riposare baciata da qualche raggio senza essere scocciata dai cani dei passanti o dalle scarpe che stagliavano suoni martellanti sull’asfalto o sui marciapiedi. Per questo non riusciva mai a individuare il sud. Dicevano terra di solidarietà e fratellanza. Un giorno, uno dei fratelli sbarcati da quell’altrove, aveva raccontato le stesse storie della Londra che lei conosceva bene.
- Mamma, perché quella donna è stesa a terra e dorme?, la voce di una bambina che cercava di rincorrere i passi veloci della madre l’aveva riportata alla realtà.
- Non è una donna. Si chiama “homeless”.
- Ma non hai risposto alla mia domanda?
- Che importa! Cammina e non avvicinarti troppo, aveva biascicato con pensieri troppo affollati per avere un senso.
Homeless era un modo per mettersi a posto con la coscienza. Quel “senza” dava la sensazione di una mancanza, una mancanza senza colpevoli. Nessuno poteva aver colpa per altri. Era questo il verso con cui girava il mondo.
- Lucy, stasera farà freddo, non credi?
- Penso che pioverà. È un grande problema. Non so dove andremo.
Tom era arrivato e aveva asfaltato comodamente il suo cartone trasportando la cesta arrugginita con le coperte ancora un po’ umide. Il carrellino non aderiva perfettamente all’asfalto e da lontano sembrava quasi volare. Erano giorni freddi, ma era meglio non pensarci. Serviva solo ad acuire la sensazione di bruciore alle ossa.
- Non possiamo più andare nei quartieri dei ricchi, mozzicò Lucy tra le labbra che sapevano ancora di sonno. Un sonno sempre disturbato, con la sensazione di fame che attanagliava lo stomaco in una morsa.
- Perché?
- Hanno messo dei punteruoli all’ingresso delle case. Non penso di essere una principessa sul pisello e di poter sopportare perni o chiodi conficcati tra le ossa.
- Ma di chi è l’idea? Dei ricconi?
- Non ho avuto il tempo di indagare né mi interessa. Uno spazio in meno dove dormire. Conta questo.
Lucy iniziò a sistemare le coperte e ad avvolgerle in modo che potessero stare racchiuse perfettamente nello spago. Avrebbe dovuto spiegare a Tom il senso del decoro, ma era un concetto aleatorio e anche inutile da comprendere. Un po’ come succedeva ai randagi, stessa sorte. Bastava farli sparire da una città per marcarne la vivibilità e riuscire a ottenere la palma di città progredita. Strano il concetto di progresso.
Vancouver era stata definita città vivibile e da quella città era arrivata a Londra la strana e persino ingegnosa idea di panchine che di notte diventavano ripari. Per “homeless”, per chi aveva una mancanza. Di bisogni primari, aveva pensato. La notizia l’aveva letta su un giornale accartocciato per rendere la notte meno fredda e le era sembrata una soluzione per le notti a venire. Ma bisognava affrettarsi. A Vancoveur c’erano meno barboni, ricordava di aver letto, ma erano più aggressivi. Londra, secondo le statistiche, poteva vantare esemplari più docili. Nessuno li aveva visto litigare per il posto. Alcuni pensavano di essere cani. Una pisciata serviva a delineare il territorio.
- Tom, domani ci trasferiamo in un’area di Londra dove si dice abbiano impiantato panchine che di notte diventano ripari. Si illuminano grazie ai raggi ultravioletti.
- Pensi che arriveremo a domani? La radio del locale ha appena detto che sarà una delle notti più fredde dell’inverno.
- Possiamo provare a riscaldarci a vicenda. Intanto troviamo un riparo, che ne pensi delle scale della metro?
Il freddo dell’inverno non si poteva immaginare. Prendeva allo stomaco. Sembrava di morire e ogni volta che si riescono a riaprire gli occhi tutto appariva diverso. Ci si sentiva meno forti e più isolati, si credeva meno all’umanità. Le panchine erano un’idea di un’associazione canadese, aveva letto. Uno dei volontari presupponeva che dormissero tanti clochard dove erano state installate. Alla fine, nessuno sapeva chi fossero questi senz- volto abituati a strisciare nell’indifferenza. Alla fine contava mettersi spesso la coscienza a posto.
- Tom? Less. Mancanza.
Gli umani erano strani. Potevi trovarli a qualsiasi ora del giorno e della notte nei locali più strampalati. Sorseggiavano spesso caffè e bevande calde e d’inverno ci avresti lasciato le labbra attaccate al bordo delle tazze. Li potevi osservare dai vetri appannati e la sensazione di freddo sembrava per un attimo liquidarsi tra i colli rovesciati di finte risate. Da laggiù si potevano guardare come da un osservatorio privilegiato. Gli umani uscivano dai locali, sempre quelli dai nomi strampalati, con la solita smorfia attaccata per qualche secondo sul volto. Un tempo si era divertita a contare il tempo che intercorreva dall’uscita all’impatto col mondo freddo intorno: meno di dieci secondi sempre, prima di rimettersi addosso l’espressione con cui si facevano vedere al resto del mondo. Rimanevano chiusi un po’ tra il collo dell’impermeabile e il cappello, rabbrividendo per il freddo, poi si trascinavano l’ombra prima che la porta si chiudesse dietro le loro spalle. Con gli occhi socchiusi, le ombre si confondevano con le macchie scure prima del sonno, pensava Lucy. E d’inverno quelle macchie erano stranamente calde, a ricordare il tepore.
Londra risplendeva anche quel giorno di gennaio di un tiepido sole, quasi la comparsa offuscata di un chissà che stava chissà dove, dicevano al sud. Per trovare il meridione bisognava indicare il punto in cui il sole raggiungeva a mezzogiorno il culmine, m a lei sembrava quasi sempre offuscato da qualche nuvola. In realtà era il momento in cui poteva riposare baciata da qualche raggio senza essere scocciata dai cani dei passanti o dalle scarpe che stagliavano suoni martellanti sull’asfalto o sui marciapiedi. Per questo non riusciva mai a individuare il sud. Dicevano terra di solidarietà e fratellanza. Un giorno, uno dei fratelli sbarcati da quell’altrove, aveva raccontato le stesse storie della Londra che lei conosceva bene.
- Mamma, chi perché quella donna è stesa a terra e dorme?, la voce di una bambina che cercava di rincorrere i passi veloci della madre l’aveva riportata alla realtà.
- Non è una donna. Si chiama “homeless”.
- Ma non hai risposto alla mia domanda?
- Che importa! Cammina e non avvicinarti troppo, aveva biascicato con pensieri troppo affollati per avere un senso.
Homeless era un modo per mettersi a posto con la coscienza. Quel “senza” dava la sensazione di una mancanza, una mancanza senza colpevoli. Nessuno poteva aver colpa per altri. Era questo il verso con cui girava il mondo.
- Lucy, stasera farà freddo, non credi?
- Penso che pioverà. È un grande problema. Non so dove andremo.
Tom era arrivato e aveva asfaltato comodamente il suo cartone trasportando la cesta arrugginita con le coperte ancora un po’ umide. Il carrellino non aderiva perfettamente all’asfalto e da lontano sembrava quasi volare. Erano giorni freddi, ma era meglio non pensarci. Serviva solo ad acuire la sensazione di bruciore alle ossa.
- Non possiamo più andare nei quartieri dei ricchi, mozzicò Lucy tra le labbra che sapevano ancora di sonno. Un sonno sempre disturbato, con la sensazione di fame che attanagliava lo stomaco in una morsa.
- Perché?
- Hanno messo dei punteruoli all’ingresso delle case. Non penso di essere una principessa sul pisello e di poter sopportare perni o chiodi conficcati tra le ossa.
- Ma di chi è l’idea? Dei ricconi?
- Non ho avuto il tempo di indagare né mi interessa. Uno spazio in meno dove dormire. Conta questo.
Lucy iniziò a sistemare le coperte e ad avvolgerle in modo che potessero stare racchiuse perfettamente nello spago. Avrebbe dovuto spiegare a Tom il senso del decoro, ma era un concetto aleatorio e anche inutile da comprendere. Un po’ come succedeva ai randagi, stessa sorte. Bastava farli sparire da una città per marcarne la vivibilità e riuscire a ottenere la palma di città progredita. Strano il concetto di progresso.
Vancoveur era stata definita città vivibile e da quella città era arrivata a Londra la strana e persino ingegnosa idea di panchine che di notte diventavano ripari. Per “homeless”, per chi aveva una mancanza. Di bisogni primari, aveva pensato. La notizia l’aveva letta su un giornale accartocciato per rendere la notte meno fredda e le era sembrata una soluzione per le notti a venire. Ma bisognava affrettarsi. A Vancouver c’erano meno barboni, ricordava di aver letto, ma erano più aggressivi. Londra, secondo le statistiche, poteva vantare esemplari più docili. Nessuno li aveva visti litigare per il posto. Alcuni pensavano di essere cani. Una pisciata serviva a delineare il territorio.
- Tom, domani ci trasferiamo in un’area di Londra dove si dice abbiano impiantato panchine che di notte diventano ripari. Si illuminano grazie ai raggi ultravioletti.
- Pensi che arriveremo a domani? La radio del locale ha appena detto che sarà una delle notti più fredde dell’inverno.
- Possiamo provare a riscaldarci a vicenda. Intanto troviamo un riparo, che ne pensi delle scale della metro?
Il freddo dell’inverno non si poteva immaginare. Prendeva allo stomaco. Sembrava di morire e ogni volta che si riuscivano a riaprire gli occhi attaccati, tutto appariva diverso. Ci si sentiva meno forti e più isolati, si credeva meno all’umanità. Le panchine erano un’idea di un’associazione canadese, aveva letto. Uno dei volontari presupponeva che in quell'area dormissero tanti clochard. Alla fine, nessuno sapeva chi fossero questi senza- volto abituati a strisciare nell’indifferenza. Alla fine contava mettersi spesso la coscienza a posto.
- Tom? Less. Mancanza.





Liberamente ispirato a

http://www.independent.co.uk/news/world/americas/vancouver-shelterbenches-show-up-londons-antihomeless-spikes-as-how-not-to-deal-with-rough-sleepers-9565941.html


http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/northamerica/canada/10926855/Antidote-to-anti-homeless-spikes-instant-bench-shelters.html