domenica 19 settembre 2010

Il Mediterraneo "cimitero d'acqua", tra passato e presente


C’è stato un tempo in cui le rotte del Mediterraneo erano invertite. Dall’Italia si raggiungeva la Libia, per conquistare, per portare la “civiltà”, per “ritornare” dove era stata Roma, per aprire nuove strade all’immigrazione italiana. Un tempo nemmeno lontano, dimenticato, chiuso per comodità nel dimenticatoio o forse semplicemente tralasciato, come si ignora il passato di un’Italia che fino a qualche decennio fa emigrava.
Si andava in Libia arrogando diritti antichi, cercando le similitudini morfologiche, climatiche e persino somatiche soprattutto con i siciliani, si chiedeva un’Unità ancora più “dilatata” che comprendesse la conquista dell’altra sponda e di tutto ciò che era stato romano. La stessa posizione dell’Italia nel Mediterraneo, lungo ponte tra l’Europa e l’Africa, era un privilegio in chiave di spostamento di uomini.
I tempi cambiano, le idee restano, forse semplicemente si invertono. I libici cercano la loro “Terra Promessa” in Italia, la stessa che invocavamo noi in uno scambio di ruoli che oggi può sembrare paradossale. Perché c’è uno strano paradosso in tutto questo, c’è una strana inquietudine che non nasce solo da una considerazione storica, ma dalla lenta agonia del senso di umanità, la stessa che non sembra essere contemplata degli accordi italo-libici sul respingimento degli immigrati.
Qualche giorno fa Rocco Buttiglione, intervenendo alla rubrica “Il caffè” di Corradino Mineo, ha rassicurato gli italiani: “Alla Libia abbiamo dato navi, armi e munizioni”. Non sembra ci siano regole di ingaggio che contemplino l'intervento con armi da fuoco verso imbarcazioni pacifiche. Non sembra.
Sull’episodio della motovedetta libica che ha sparato sugli italiani il ministro Maroni ha chiuso la questione con un: “Pensavano che a bordo ci fossero dei clandestini”. Come se fosse lecito e normale sparare ad altezza uomo agli immigrati.
Qualcuno avanza l’ipotesi dell’avvertimento: non addentrarsi nella zona grigia, dove i respingimenti avvengono con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Ci sono in ballo interessi economici.
E così viene da chiedersi se la stessa l’Italia che non vuole clandestini accetti che si lascino morire nel deserto disidratati o ammazzati nel Mediterraneo senza pietà; se l’Italia cattolica non debba fare i conti con la propria coscienza e anche seriamente. Oppure se esistono morti di serie A e morti di serie B. Ma qui si smarrirebbe l’essenza dell’uomo stesso. Come dire, abbiamo perso l'umanità ma continuiamo a cercare Dio.
C’era un’antica e tetra leggenda sui morti nel Mare Nostro, lu scïò, «una cortina plumbea di montagne nere», non formata da nuvole, ma da «una ressa di miliardi d’anime accorse da ogni mondo e compresse l’una sull’altra in tal maniera che forarne lo strato è impossibile», la «spada di Dio», mossa da «una suprema giustizia» che fa colpire solo quelli che meritano, che raccoglie le anime di «quelli a cui noi marinai facemmo torto in vita», ma anche degli spiriti dei «nemici vivi e di tutti coloro che vogliono nuocere ai marinai» perché «è il demonio che ve li incastra».
Con queste parole, dense di inquietanti suggestioni, lo scrittore Milanesi raccoglieva, nel lontano 1918, la leggenda raccontata da un marinaio di San Benedetto. L’idea del Mediterraneo come immenso «cimitero d’acqua», luogo di morte più che di vita, permea la letteratura del Novecento: mare brulicante di sacchi di cadaveri, teschi comparsi sulle rive del mare nostro, la corrente infinita descritta da Pascoli che “recava le voci di Menfi, di Babilonia, di Ninive, di Atene, di Pergamo, di Alessandria, di Hierosolima”, le ombre del mare che rievocano i combattimenti di Roma e Cartagine.
Per la stesso, a tratti inquietante, capovolgimento di prospettive, ci abitueremo ad ascoltare voci provenienti dalle “antiche sponde libiche”, quelle per cui gli italiani hanno un tempo versato il sangue. In fondo, le voci degli uomini sono tutte uguali. Solo le voci.

venerdì 10 settembre 2010

“Neonata tolta alla madre povera”. L’Italia dei buonismi di massa?


Si fa presto a giudicare. E si fa ancora più presto a vendere una notizia con titoloni capaci di attirare l’attenzione dei lettori. In un improvviso e vorticoso giro di pensieri, scatta il buonismo italiano. Tutti si indignano, tutti gridano che è vergognoso, tutti sbraitano contro lo Stato e le sue inefficienze, e poi, tutti tornano sereni e tranquilli dimenticandosi dell’avvenimento.
“Neonata tolta alla madre perché povera”. La notizia è di luglio, gli sviluppi recenti. Il Tribunale di Trento ha dichiarato la neonata adottabile ed ha iniziato un affidamento preadottivo. Al di là delle considerazioni e dei tempi prettamente giuridici, la riflessione dovrebbe scavalcare “il titolo” in sé e allargarsi a più considerazioni.
Va bene che la giustizia in Italia non sempre funziona, ma l’informazione non dovrebbe limitarsi a fare audience, come accade sempre più spesso. L'assessore provinciale alle politiche sociali della Provincia autonoma di Trento, Ugo Rossi, già a luglio, in una lettera indirizzata al ministro Carfagna, aveva sottolineato che non era corretto pubblicare notizie che andassero “a screditare il lavoro del Tribunale e dei servizi sociali accusati di faciloneria, insensibilità e ingiustizia. Non possiamo far passare il messaggio che e' sufficiente essere economicamente in difficoltà per vedersi sottrarre un figlio o che le Istituzioni puniscano anziché aiutare le persone indigenti'”.
Il nocciolo è tutto qui: non far passare il messaggio che la povertà sia un pregiudizio. Non mi sembra che in Italia lo sia, tanto meno che si sottraggano facilmente figli alle madri. Anzi, si può affermare il contrario. Spulciando in giro per news, si trova solo qualche timido cenno alle relazioni stilate dai servizi sociali precedentemente il parto, all’instabilità e “povertà” emotiva, alla fragilità della donna. Bisognerebbe conoscere i dettagli, ma in Italia interessano a pochi. E’ più facile darci dentro coi luoghi comuni e i pregiudizi, prendersela con lo Stato e la giustizia, quasi a fare del singolo episodio uno sfogatoio personale. E qui sono d’obbligo due storie vissute.
G. , 7 anni, cammina ogni mattina per i vialetti della scuola tra le parolacce della madre, sottolineo italiana, una litania che l’accompagna fino all’entrata in aula, tra gli sguardi indignati dei buonisti e i vani tentativi di segnalazione. Disagi familiari, disturbi del comportamento, occhi spenti mentre cerca di giocare in giardino prendendo a botte i compagni di classe.
M., 7 anni, cucina il ragù, si prende cura del fratellino di 2 anni, sa preparare la torta di zucca, come nella tradizione del suo Paese. L’hanno vista andare a fare spesa con un orsacchiotto tra le mani quando scendeva la sera. Non ha un’infanzia, si legge questo nei suoi occhi.
A quest’età, le lungaggini burocratiche ti tolgono il diritto a vivere serenamente la parte spensierata della vita, quella in cui dovresti imparare a sognare. In questi casi, tutti i buonisti pronti a invocare la soluzione inversa: perché i servizi sociali non ci sono? E lo Stato? Lo Stato ha fallito?
Non si tratta di giudicare, ma di valutare. L’Italia delle soluzioni facili è sempre a portata di mano e, aggiungerei, di click. La maternità è un diritto, ma ancor di più l’infanzia.
Forse basterebbe solo un cambio di prospettive: il minore al centro degli interessi, sempre.

mercoledì 8 settembre 2010

L’Italia “inventata”, tra sentimentalismi e nostalgie



La Lega avanza anche nel centro Italia e Bossi invoca un ritorno immediato alle urne. Un fenomeno politico sottovalutato? Si potrebbe dire di sì. Alla fine degli anni Novanta, neppure tanto tempo fa, in un’intervista rilasciata a Paolo Rumiz, Carlo Tullio Altan considerava improbabile che l’idea di Padania attecchisse nell’immaginario italiano in maniera tale da influenzarne la vita sociale e politica.

Dopo dodici anni, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, il peso elettorale della Lega e la capacità di influenzare attraverso discorsi retorici e populistici moltissimi italiani lascia emergere il volto di un Paese che ripensa le sue stesse categorie identitarie.

Non c’è mai stato il tempo di “fare gli italiani” o forse gli avvenimenti storici hanno finito per indebolire l’idea stessa di Nazione. Costruita in maniera labile e in continua oscillazione tra nostalgie e invenzione di tradizioni, l’Italia è sempre più frantumata in un mare di spinte localistiche, dalla politica “urlata” della Lega, la degenerazione più evidente della crisi culturale italiana, a un Mezzogiorno che volge lo sguardo a un idilliaco passato.

Un Paese fragile, a due marce, sempre più rannicchiato in patine nostalgiche, dove la globalizzazione finisce per marcare localismi e rimpianti. E proprio nella fase in cui si chiedeva al sistema partitico italiano uno sforzo per combattere la crisi, per accettare la sfida dell’Europa, per imprimere coesione al Paese, si sono smarriti i ruoli di mediazione. La società civile non si sente più rappresentata; in una spirale vertiginosa, partiti, sindacati e istituzioni socioculturali hanno perso credibilità.

Ci stiamo abituando a vedere lavoratori inventare nuove forme di protesta, nella completa indifferenza delle istituzioni; ai giornalisti e agli intellettuali si chiedono alternative valide, quelle che dovrebbero far parte di un programma politico, alla gente comune il contenimento della rabbia o l’improvvisazione di soluzioni. In questo quadro sconcertante, l’Italia “inventa” le sue tradizioni, per dirla con Hobsbawm e Gellner, o riesuma nostalgici richiami a un passato perduto, fatto di glorie e successi, utilizzandolo in chiave fortemente emotiva.

Un magma confuso di sentimenti e inquietudini, su cui la Lega Nord ha saputo costruire una demagogia fatta di demonizzazione di un “nemico” generico e/o specifico verso cui far confluire le paure e i dubbi spesso generate dalla necessità di ripensare la società. Ora gli immigrati irregolari, ora i comunitari, prima Roma ladrona, poi le moschee, il cous cous, i meridionali, altrove i gay.

Un movimento, la Lega, in realtà senza tradizione con un programma in cui si mescolano il richiamo a riti pagani celtici, come quello dell’acqua del Po raccolta in un’ampolla e versata nella Laguna di Venezia, la costruzione di un’area geografica caratterizzata da un idioma gallo-italiano, riti attinti dal passato come il giuramento di Pontida.

Alla fine, vince sempre chi fa leva sulle paure della gente, perché ognuno preferisce chiamare verità le cose che gli fanno comodo. Ri-pensare la storia d’Italia partendo dai localismi e dalle nostalgie?

Matvejevic direbbe che «il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia». Figurarsi un passato “inventato”.

sabato 17 luglio 2010

Per la Chiesa la pedofilia è un “delitto contro il costume”



La sospensione delle idee. A leggere il documento Normae de gravioribus delictis, redatto dalla Congregazione per la dottrina della fede in sostituzione dell’istruzione Delicta Graviora emanata nel 2001, si prova un misto di incredulità e di tristezza. Non c’è più nemmeno spazio per l’indignazione, a quella ci si abitua lentamente; sembra essere diventata una costante della società attuale. Una lunga e prolungata somministrazione di dosi quotidiane di piccoli, grandi risentimenti che sta portando all’eutanasia del pensiero, della critica, del sentire in ogni ambito, politico, sociale, culturale.

Abbiamo assistito in questi mesi a una campagna di “normalizzazione” del fenomeno pedofilia passata attraverso l’individuazione di altri “nemici” a cui guardare, proclami contro il complotto anticlericale orchestrato da chissà quale entità, strenua difesa degli embrioni e, senza paura di toccare il fondo, deformazione dell’omosessualità, fatta apparire come una malattia e un disagio per chi la vive discretamente: tutto per distogliere l’attenzione, tra deliri e anacronismi, tra posizioni ufficiali e ufficiose di cardinali e vescovi, senza una presa di posizione netta e decisa, se non quella delle parole e delle scuse. Come se bastassero.

In 31 articoli, la Sacra Congregazione traccia le linee guida per giudicare “i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi contro i costumi o nella celebrazione dei sacramenti”: in primis “contro la santità dell’augustissimo Sacrificio e sacramento dell’Eucaristia”, della penitenza, quello “più grave di attentata sacra ordinazione di una donna”, e - finamente - all’articolo 6:

1. I delitti più gravi contro i costumi, riservati al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono:
1° il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni; in questo numero, viene equiparata al minore la persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione;
2° l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento.
§ 2. Il chierico che compie i delitti di cui al § 1 sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione.


Un delitto contro il costume, liquidato in poche battute, come quando lo stupro era “qualcosa”che offendeva il pubblico pudore. Qualcosa, un quid, perché in questi termini si liquida la faccenda, in maniera asettica, quella dei documenti ufficiali emanati speriamo non sotto dettatura dello Spirito Santo.
Non si vuole attaccare la fede, che merita sempre rispetto. Quella prescinde “dagli uomini”, come precisano tutti i cattolici, tuttavia questa sorta di giustificazione, che a tratti appare oggettivamente “leggera”, regge se si è disposti a farsi processare come “uomini”. Invece, come specificato in una nota di Padre Lombardi, “trattandosi di norme interne all’ordinamento canonico, di competenza cioè della Chiesa, non trattano l’argomento della denuncia alle autorità civili”.
Di fronte all’alleggerimento, ufficiale ed ufficializzato, di un delitto considerato “contro il costume” e non contro la dignità della persona, viene da chiedersi se questa che stiamo vivendo non sia solo la parte superficiale di un fenomeno molto più esteso. E qui forse ci si aspetterebbe una netta denuncia, un’ammissione di colpa e soprattutto la solidarietà, da parte della comunità cattolica “dal basso”, a quanti sono “stati violati”. E, invece, il dubbio di non veridicità, di manipolazione, di complotto, il silenzio opaco e inspiegabile o - sottovoce – parole sminuite e smentite dagli atti ufficiali.
Non si sente il grido della Chiesa degli uomini, quelli che dovrebbero semplicemente mostrarsi indignati, perché non va difesa solo la vita “concepita”, ma anche quella vissuta. Non si sente la Chiesa del grande respiro evangelico, quella di Gesù e dei suoi insegnamenti. Non si sente nemmeno la voce austera e ridondante della Chiesa dei concili e delle scomuniche. Non c’è bisogno di arrivare alle crociate o ai roghi, basta fare un salto nel dopoguerra italiano o rispolverare le posizioni sempreverdi contro l’aborto.
Disarmante e angosciante allo stesso tempo, ma soprattutto offensivo per le vittime. A noi, comuni mortali, non resta che ricordare Giovenale: "Nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza". Magra consolazione, ma non si vede una via d’uscita diversa.

venerdì 18 giugno 2010

Josè Saramago, La cosa Berlusconi



Non vedo che altro nome gli potrei dare. Una cosa che assomiglia pericolosamente a un essere umano, una cosa che dà feste, organizza orge e comanda in un paese chiamato Italia. Questa cosa, questa malattia, questo virus minaccia di essere la causa della morte morale del paese di Verdi se un conato di vomito profondo non riuscirà a strapparlo dalla coscienza degli italiani prima che il veleno finisca per corrompere le loro vene e per squassare il cuore di una delle più ricche culture europee.

I valori fondamentali della convivenza umana sono calpestati tutti i giorni dai piedi appiccicosi della cosa Berlusconi che, tra i suoi molteplici talenti, ha un’abilità funambolica per abusare delle parole, sconvolgendone l’intenzione e il senso, come nel caso del Polo della Libertà, come si chiama il partito con il quale ha preso d’assalto il potere. L’ho chiamato delinquente, questa cosa, e non me ne pento. Per ragioni di natura semantica e sociale che altri potranno spiegare meglio di me, il termine delinquente ha in Italia una valenza negativa molto più forte che in qualsiasi altra lingua parlata in Europa.

Per tradurre in forma chiara ed efficace ciò che penso della cosa Berlusconi utilizzo il termine nell’accezione che la lingua di Dante gli dà abitualmente, sebbene si possa avanzare più di un dubbio che Dante qualche volta lo abbia usato. Delinquere, nel mio portoghese, significa, secondo i dizionari e la pratica corrente della comunicazione, “atto di commettere delitti, disobbedire alle leggi o ai precetti morali”.

La definizione combacia con la cosa Berlusconi senza una piega, senza un tirante, fino al punto da assomigliare più a una seconda pelle che ai vestiti che si mette addosso. Da anni la cosa Berlusconi commette delitti di varia, ma sempre dimostrata, gravità. Per colmo, non è che disobbedisca alle leggi, ma, peggio ancora, le fa fabbricare a salvaguardia dei suoi interessi pubblici e privati, di politico, imprenditore e accompagnatore di minorenni, e in quanto ai precetti morali non vale neppure la pena parlarne, non c’è chi non sappia in Italia e nel mondo intero che la cosa Berlusconi da molto tempo è caduta nella più completa abiezione.

Questo è il primo ministro italiano, questa è la cosa che il popolo italiano ha eletto due volte per servirgli da modello, questo è il cammino verso la rovina a cui vengono trascinati i valori di libertà e dignità che permearono la musica di Verdi e l’azione politica di Garibaldi, coloro che fecero dell’Italia del secolo XIX, durante la lotta per l’unità, una guida spirituale dell’Europa e degli europei. Questo è ciò che la cosa Berlusconi vuole gettare nel bidone della spazzatura della Storia. Gli italiani, alla fine, lo permetteranno?

domenica 25 aprile 2010

La memoria labile. Un Paese senza identità è un Paese senza futuro



C’è il tempo della memoria e il tempo dei revisionismi. Una legge “naturale” che attraversa la storia, che si ritaglia spazi più o meno ampi seguendo schizofrenie politiche e tentazioni che deformano la realtà in nome di ipotetiche revisioni. Si potrebbero citare i “walzer” dell’Italia cari a Bismarck, questa volta non quelli diplomatici, ma quelli mentali e culturali, che hanno a che fare con l’immaginario italiano e portano gli ideali a essere risucchiati in una sorta di spirale che sembra non trovare fine. Una parte del Paese vorrebbe svegliarsi e non avere vergogna, quotidianamente, di quello che accade. Sarebbe il primo traguardo per restituire dignità a uno Stato che sonnecchia beatamente, disteso sugli allori di un passato “urlato” all’occorrenza e la completa assenza di reali preoccupazioni per il futuro. Qualcosa di lontano, inafferrabile, dai contorni sbiaditi.

Nel 65° anniversario della Liberazione, in quello che doveva essere un momento di coesione nazionale, l’Italia scrive una delle pagine più buie della sua storia, vede ridotto il 25 aprile 1945 a una “faccenda” americana, vede vietare Bella Ciao e sparire la Resistenza dai programmi ministeriali. È un’inquietudine che permea il Paese, la punta di un iceberg nelle cui profondità si agitano acque che parlano di un’identità frammentata e di un’Unità in bilico. Vecchie e nuove rivendicazioni, fragilità e contraddizioni si disegnano su uno specchio appannato in cui una parte dell’Italia si intravede a stento e l’altra attende che qualcuno, quasi un deus ex machina, possa salvare il Paese alla deriva. Uno specchio in cui si affacciano voci ormai confuse e dove la varietà delle diverse aree dell’Italia non è più letta come una ricchezza, ma ridotta a una questione spinosa a cui si aggrappano nostalgici richiami a tradizioni inventate all’occorrenza, come quelle della Lega, o a fantasmi che vagano nell’immaginario del Sud.

Viene da dire che non c’è nulla da festeggiare in un’Italia dove il filo della memoria è labile e gli ideali sono diventati confusi, quasi pensieri di una nicchia di intellettuali e di nostalgici: stravolgimento di significati e significanti, in un circolo vizioso in cui le ricorrenze sono ridotte a dispute ideologiche. Non c’è nulla da festeggiare in un’Italia che dimentica la nascita della democrazia come sacrificio di persone morte per un ideale, persone che hanno lottato e che stavano da una parte ben precisa. Rispetto per tutti i morti della guerra e “delle “guerre, si potrebbe aggiungere, perché la guerra è sempre negazione dell’umanità, ma i revisionismi che hanno solo la pretesa di omettere una parte della storia non hanno significato, contribuiscono solo a soddisfare il disegno di chi non vuole un’Italia capace di pensare liberamente e persa in ossessioni mediatiche. Stiamo operando un capillare svuotamento della nostra storia, slegando i fili della memoria per lasciare spazio a vuoti e silenzi.

Non c’è nulla da festeggiare neppure in termini di dignità. La Liberazione come “lotta” quotidiana riporta alla mente le parole di Piero Calamadrei che nel lontano (adesso più che mai!) 1955 ammoniva:

“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.

L’Italia è nel de profundis morale, attanagliata da una morsa irrazionale di qualunquismo: scelte inspiegabili, risultati elettorali irrazionali, clima politico sempre più instabile e pericolosa avanzata degli estremismi e dei localismi, in netto contrasto con l’idea di globalizzazione. E ancora, spasmodica ricerca di sicurezza entro i propri confini, costruzione di un nemico verso cui far confluire le paure e le ansie, coacervo di intolleranze e schizofrenie quotidiane. Viene da chiedersi, dov’è il coraggio delle scelte, le stesse che mossero i pensieri di tante persone morte in nome di un ideale. Sul muro della cella di via Tasso dove era rinchiuso Sabato Martelli Castaldi, generale di Brigata Aerea che dopo l’8 settembre 1943 fornì armi ed esplosivi ai partigiani del Lazio e dell’Abruzzo, un ultimo messaggio:

Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta – Fa’ che
possa essere sempre
di esempio

sabato 24 aprile 2010

La Resistenza. Lettera di Giordano Cavestro (Mirko), fucilato nel maggio 1944




Di anni 18 - studente di scuola media - nato a Parma il 30 novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti - dopo l'8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti - tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma - condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all'uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.

Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d'Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.

Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.

Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.


Fonte: Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi 1995, p. 514

Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione (1955)



L’art.34 dice:” I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così:
”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo- “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro “- corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
E‘ stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma no è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto
è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è -non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani- una malattia dei giovani. ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina,, che qualcheduno di voi conoscerà, d quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: ” Che me ne importa, non è mica mio!”. Questo è l’indifferentisno alla politica. E’ così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo- io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui- queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto- questa è una delle gioie della vita- rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete- io ho poco altro da dirvi-, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate,”l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo,
all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.

Il "confine mobile": un precariato dal volto umano


Non ho la luna nel mio immaginario e scoprirlo è stato anche un po’ triste. Mentre chiacchieravo con un amico, tra il filosofico e il “quotidiano”, mi sono accorta di non avere una mente “a livelli”, che s’innalza in un certo senso verticalmente verso il mondo, ma una mente che, se chiudo gli occhi, si staglia lungo “confini mobili”. Una metafora della vita. Vedo terre che corrono veloci, poi il mare, un mare calmo e rassicurante e in fondo, dove si toccano il cielo e la terra, l’orizzonte.
Da quando ero piccola quella linea immaginaria ha rappresentato l’inizio di nuovi mondi da esplorare, l’idea di un viaggio nella vita che, a giudicare dalle scene che emergono dalla mia mente, mi appare ancora serena. Tanta voglia di libertà, in una società progredita che mette in catene, per parafrasare un pensiero di Jean-Jacques Rosseau, dove il progresso comporta una perdita di umanità e un impoverimento della società.
Tra gli imbarbarimenti attuali, la disumanizzazione del lavoro ha un nome che ne raccoglie gli squilibri: precariato, i “moderni schiavi” del lavoro, come vengono definiti, anonimi dietro i contratti di collaborazione, forse più conosciuti in cifre se si pensa al considerevole aumento che hanno avuto negli ultimi anni. Precariato ovunque, nel privato ma anche nel pubblico, dove un giorno si pensava si potesse trovare una certa stabilità, un’isola felice nella giungla lavorativa.
Ho inseguito per anni la cultura. Vengo da una semplice famiglia di operai a cui devo la tenacia e l’amore per la libertà; metaforicamente potrei dire che mi hanno comunicato senza troppe parole, l’idea di navigare sempre nel mio mare ergendo la vela più grande e di scavalcare l’orizzonte per entrare in altri spazi. Quando ho aperto la porta al mio futuro, avevo speranze. Pensavo di poter raccogliere i miei sogni di bambina, diventare una giornalista o una scrittrice e coltivare l’amore per la scrittura. La prima sperimentazione del precariato l’ho fatta dopo la laurea: non me ne facevo un problema. Era naturale, era anche troppo “rassicurante” se pensavo ad amici che non avevano lavoro.
Di fronte all’amore e alla passione, i dettagli dei contratti di collaborazione, le limitazioni, l’idea di lavorare senza contributi, le “prestazioni occasionali”, passavano in secondo piano. Sei anni di contratti somministrati con una certa assiduità, poi sempre più rari e, intanto, sono passata dal silenzio degli archivi al “vociare” confuso delle classi della scuola primaria. La mia piccola imbarcazione ha cambiato rotta, sospinta dal vento della necessità a cui si collegano bisogni primari: la famiglia, un figlio, il mutuo!
Sulla nuova isoletta, apparentemente sicura ma piena di insidie nascoste, ho scoperto una nuova forma di precariato e ho dato un volto più umano agli stessi precari. Non ero sola, chiusa in un archivio o in una biblioteca, ma cominciavo a prendere coscienza che tante persone vivevano in una condizione “disumana”, appesi a una telefonata, con la percezione che il lavoro si riducesse a un “punteggio”, quasi un’assurda scalata tra altri numeri, altre matricole, qualcuna persino con un volto.
Questa nuova concezione del lavoro, bistrattata ma comunque entrata a far parte del sistema italiano, presuppone la presa di coscienza di una moderna alienazione, non intesa solo come estraneità del lavoratore al prodotto e all’attività che svolge, ma come conseguenza di un’instabilità di rapporti che genera demotivazione, angoscia, incertezza. Il precariato diventa uno status, il naturale modo di pensare non limitato solo all’ambito professionale ma che, pian piano, lentamente, si trasforma nella personale forma mentis, in cui il futuro non è una speranza ma un non-pensiero. È un’alienazione dal domani e dalla speranza che comporta un’apparente rassegnazione alla vita stessa. Apparente. In realtà, cela il coraggio di lottare anche senza diritti, di dare dignità a qualcosa che non è una garanzia.
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, recita l’art. 1 della Costituzione Italiana.
Se mi ripenso in rotta nel mio mare, l’orizzonte acquisisce un significato che da piccola e da adolescente non avrei immaginato. O meglio, si aggiungono nuove sfumature. Non solo il poetico e idilliaco spazio da esplorare oltre la linea, dove nasce e muore il sole, piuttosto un “confine mobile”, qualcosa che si sposta se ti avvicini e non si lascia mai sfiorare. Forse, un metaforico senso di un precariato dal volto più umano.

30-06-2009


pubblicato su: http://www.filcams.cgil.it/NA/nanews.nsf/2c5e41f84b643c0a852564bc004a12ae/c08569c13bdffeadc12575e5003fd7b1!OpenDocument