sabato 24 aprile 2010

Il "confine mobile": un precariato dal volto umano


Non ho la luna nel mio immaginario e scoprirlo è stato anche un po’ triste. Mentre chiacchieravo con un amico, tra il filosofico e il “quotidiano”, mi sono accorta di non avere una mente “a livelli”, che s’innalza in un certo senso verticalmente verso il mondo, ma una mente che, se chiudo gli occhi, si staglia lungo “confini mobili”. Una metafora della vita. Vedo terre che corrono veloci, poi il mare, un mare calmo e rassicurante e in fondo, dove si toccano il cielo e la terra, l’orizzonte.
Da quando ero piccola quella linea immaginaria ha rappresentato l’inizio di nuovi mondi da esplorare, l’idea di un viaggio nella vita che, a giudicare dalle scene che emergono dalla mia mente, mi appare ancora serena. Tanta voglia di libertà, in una società progredita che mette in catene, per parafrasare un pensiero di Jean-Jacques Rosseau, dove il progresso comporta una perdita di umanità e un impoverimento della società.
Tra gli imbarbarimenti attuali, la disumanizzazione del lavoro ha un nome che ne raccoglie gli squilibri: precariato, i “moderni schiavi” del lavoro, come vengono definiti, anonimi dietro i contratti di collaborazione, forse più conosciuti in cifre se si pensa al considerevole aumento che hanno avuto negli ultimi anni. Precariato ovunque, nel privato ma anche nel pubblico, dove un giorno si pensava si potesse trovare una certa stabilità, un’isola felice nella giungla lavorativa.
Ho inseguito per anni la cultura. Vengo da una semplice famiglia di operai a cui devo la tenacia e l’amore per la libertà; metaforicamente potrei dire che mi hanno comunicato senza troppe parole, l’idea di navigare sempre nel mio mare ergendo la vela più grande e di scavalcare l’orizzonte per entrare in altri spazi. Quando ho aperto la porta al mio futuro, avevo speranze. Pensavo di poter raccogliere i miei sogni di bambina, diventare una giornalista o una scrittrice e coltivare l’amore per la scrittura. La prima sperimentazione del precariato l’ho fatta dopo la laurea: non me ne facevo un problema. Era naturale, era anche troppo “rassicurante” se pensavo ad amici che non avevano lavoro.
Di fronte all’amore e alla passione, i dettagli dei contratti di collaborazione, le limitazioni, l’idea di lavorare senza contributi, le “prestazioni occasionali”, passavano in secondo piano. Sei anni di contratti somministrati con una certa assiduità, poi sempre più rari e, intanto, sono passata dal silenzio degli archivi al “vociare” confuso delle classi della scuola primaria. La mia piccola imbarcazione ha cambiato rotta, sospinta dal vento della necessità a cui si collegano bisogni primari: la famiglia, un figlio, il mutuo!
Sulla nuova isoletta, apparentemente sicura ma piena di insidie nascoste, ho scoperto una nuova forma di precariato e ho dato un volto più umano agli stessi precari. Non ero sola, chiusa in un archivio o in una biblioteca, ma cominciavo a prendere coscienza che tante persone vivevano in una condizione “disumana”, appesi a una telefonata, con la percezione che il lavoro si riducesse a un “punteggio”, quasi un’assurda scalata tra altri numeri, altre matricole, qualcuna persino con un volto.
Questa nuova concezione del lavoro, bistrattata ma comunque entrata a far parte del sistema italiano, presuppone la presa di coscienza di una moderna alienazione, non intesa solo come estraneità del lavoratore al prodotto e all’attività che svolge, ma come conseguenza di un’instabilità di rapporti che genera demotivazione, angoscia, incertezza. Il precariato diventa uno status, il naturale modo di pensare non limitato solo all’ambito professionale ma che, pian piano, lentamente, si trasforma nella personale forma mentis, in cui il futuro non è una speranza ma un non-pensiero. È un’alienazione dal domani e dalla speranza che comporta un’apparente rassegnazione alla vita stessa. Apparente. In realtà, cela il coraggio di lottare anche senza diritti, di dare dignità a qualcosa che non è una garanzia.
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, recita l’art. 1 della Costituzione Italiana.
Se mi ripenso in rotta nel mio mare, l’orizzonte acquisisce un significato che da piccola e da adolescente non avrei immaginato. O meglio, si aggiungono nuove sfumature. Non solo il poetico e idilliaco spazio da esplorare oltre la linea, dove nasce e muore il sole, piuttosto un “confine mobile”, qualcosa che si sposta se ti avvicini e non si lascia mai sfiorare. Forse, un metaforico senso di un precariato dal volto più umano.

30-06-2009


pubblicato su: http://www.filcams.cgil.it/NA/nanews.nsf/2c5e41f84b643c0a852564bc004a12ae/c08569c13bdffeadc12575e5003fd7b1!OpenDocument

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