domenica 25 aprile 2010

La memoria labile. Un Paese senza identità è un Paese senza futuro



C’è il tempo della memoria e il tempo dei revisionismi. Una legge “naturale” che attraversa la storia, che si ritaglia spazi più o meno ampi seguendo schizofrenie politiche e tentazioni che deformano la realtà in nome di ipotetiche revisioni. Si potrebbero citare i “walzer” dell’Italia cari a Bismarck, questa volta non quelli diplomatici, ma quelli mentali e culturali, che hanno a che fare con l’immaginario italiano e portano gli ideali a essere risucchiati in una sorta di spirale che sembra non trovare fine. Una parte del Paese vorrebbe svegliarsi e non avere vergogna, quotidianamente, di quello che accade. Sarebbe il primo traguardo per restituire dignità a uno Stato che sonnecchia beatamente, disteso sugli allori di un passato “urlato” all’occorrenza e la completa assenza di reali preoccupazioni per il futuro. Qualcosa di lontano, inafferrabile, dai contorni sbiaditi.

Nel 65° anniversario della Liberazione, in quello che doveva essere un momento di coesione nazionale, l’Italia scrive una delle pagine più buie della sua storia, vede ridotto il 25 aprile 1945 a una “faccenda” americana, vede vietare Bella Ciao e sparire la Resistenza dai programmi ministeriali. È un’inquietudine che permea il Paese, la punta di un iceberg nelle cui profondità si agitano acque che parlano di un’identità frammentata e di un’Unità in bilico. Vecchie e nuove rivendicazioni, fragilità e contraddizioni si disegnano su uno specchio appannato in cui una parte dell’Italia si intravede a stento e l’altra attende che qualcuno, quasi un deus ex machina, possa salvare il Paese alla deriva. Uno specchio in cui si affacciano voci ormai confuse e dove la varietà delle diverse aree dell’Italia non è più letta come una ricchezza, ma ridotta a una questione spinosa a cui si aggrappano nostalgici richiami a tradizioni inventate all’occorrenza, come quelle della Lega, o a fantasmi che vagano nell’immaginario del Sud.

Viene da dire che non c’è nulla da festeggiare in un’Italia dove il filo della memoria è labile e gli ideali sono diventati confusi, quasi pensieri di una nicchia di intellettuali e di nostalgici: stravolgimento di significati e significanti, in un circolo vizioso in cui le ricorrenze sono ridotte a dispute ideologiche. Non c’è nulla da festeggiare in un’Italia che dimentica la nascita della democrazia come sacrificio di persone morte per un ideale, persone che hanno lottato e che stavano da una parte ben precisa. Rispetto per tutti i morti della guerra e “delle “guerre, si potrebbe aggiungere, perché la guerra è sempre negazione dell’umanità, ma i revisionismi che hanno solo la pretesa di omettere una parte della storia non hanno significato, contribuiscono solo a soddisfare il disegno di chi non vuole un’Italia capace di pensare liberamente e persa in ossessioni mediatiche. Stiamo operando un capillare svuotamento della nostra storia, slegando i fili della memoria per lasciare spazio a vuoti e silenzi.

Non c’è nulla da festeggiare neppure in termini di dignità. La Liberazione come “lotta” quotidiana riporta alla mente le parole di Piero Calamadrei che nel lontano (adesso più che mai!) 1955 ammoniva:

“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione”.

L’Italia è nel de profundis morale, attanagliata da una morsa irrazionale di qualunquismo: scelte inspiegabili, risultati elettorali irrazionali, clima politico sempre più instabile e pericolosa avanzata degli estremismi e dei localismi, in netto contrasto con l’idea di globalizzazione. E ancora, spasmodica ricerca di sicurezza entro i propri confini, costruzione di un nemico verso cui far confluire le paure e le ansie, coacervo di intolleranze e schizofrenie quotidiane. Viene da chiedersi, dov’è il coraggio delle scelte, le stesse che mossero i pensieri di tante persone morte in nome di un ideale. Sul muro della cella di via Tasso dove era rinchiuso Sabato Martelli Castaldi, generale di Brigata Aerea che dopo l’8 settembre 1943 fornì armi ed esplosivi ai partigiani del Lazio e dell’Abruzzo, un ultimo messaggio:

Quando il tuo corpo
non sarà più, il tuo
spirito sarà ancora più
vivo nel ricordo di
chi resta – Fa’ che
possa essere sempre
di esempio

sabato 24 aprile 2010

La Resistenza. Lettera di Giordano Cavestro (Mirko), fucilato nel maggio 1944




Di anni 18 - studente di scuola media - nato a Parma il 30 novembre 1925 -. Nel 1940 dà vita, di sua iniziativa, ad un bollettino antifascista attorno al quale si mobilitano numerosi militanti - dopo l'8 settembre 1943 lo stesso nucleo diventa centro organizzativo e propulsore delle prime attività partigiane nella zona di Parma -. Catturato il 7 aprile 1944 a Montagnana (Parma), nel corso di un rastrellamento operato da tedeschi e fascisti - tradotto nelle carceri di Parma -. Processato il 14 aprile 1944 dal Tribunale Militare di Parma - condannato a morte, quindi graziato condizionalmente e trattenuto come ostaggio -. Fucilato il 4 maggio 1944 nei pressi di Bardi (Parma), in rappresaglia all'uccisione di quattro militi, con Raimondo Pelinghelli, Vito Salmi, Nello Venturini ed Erasmo Venusti.

Parma, 4-5-1944

Cari compagni, ora tocca a noi.
Andiamo a raggiungere gli altri tre gloriosi compagni caduti per la salvezza e la gloria d'Italia.
Voi sapete il compito che vi tocca. Io muoio, ma l'idea vivrà nel futuro, luminosa, grande e bella.

Siamo alla fine di tutti i mali. Questi giorni sono come gli ultimi giorni di vita di un grosso mostro che vuol fare più vittime possibile.

Se vivrete, tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care.

La mia giovinezza è spezzata ma sono sicuro che servirà da esempio.

Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà.


Fonte: Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi 1995, p. 514

Piero Calamandrei, Discorso sulla Costituzione (1955)



L’art.34 dice:” I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così:
”E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo- “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro “- corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
E‘ stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’art. 3 vi dice: “ E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma no è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società n cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anche essa contribuire al progresso della società. Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto
è in noi per trasformare questa situazione presente. Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è -non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani- una malattia dei giovani. ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina,, che qualcheduno di voi conoscerà, d quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: ” Che me ne importa, non è mica mio!”. Questo è l’indifferentisno alla politica. E’ così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica. La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo. Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo- io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui- queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto- questa è una delle gioie della vita- rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete- io ho poco altro da dirvi-, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate,”l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo,
all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.

Il "confine mobile": un precariato dal volto umano


Non ho la luna nel mio immaginario e scoprirlo è stato anche un po’ triste. Mentre chiacchieravo con un amico, tra il filosofico e il “quotidiano”, mi sono accorta di non avere una mente “a livelli”, che s’innalza in un certo senso verticalmente verso il mondo, ma una mente che, se chiudo gli occhi, si staglia lungo “confini mobili”. Una metafora della vita. Vedo terre che corrono veloci, poi il mare, un mare calmo e rassicurante e in fondo, dove si toccano il cielo e la terra, l’orizzonte.
Da quando ero piccola quella linea immaginaria ha rappresentato l’inizio di nuovi mondi da esplorare, l’idea di un viaggio nella vita che, a giudicare dalle scene che emergono dalla mia mente, mi appare ancora serena. Tanta voglia di libertà, in una società progredita che mette in catene, per parafrasare un pensiero di Jean-Jacques Rosseau, dove il progresso comporta una perdita di umanità e un impoverimento della società.
Tra gli imbarbarimenti attuali, la disumanizzazione del lavoro ha un nome che ne raccoglie gli squilibri: precariato, i “moderni schiavi” del lavoro, come vengono definiti, anonimi dietro i contratti di collaborazione, forse più conosciuti in cifre se si pensa al considerevole aumento che hanno avuto negli ultimi anni. Precariato ovunque, nel privato ma anche nel pubblico, dove un giorno si pensava si potesse trovare una certa stabilità, un’isola felice nella giungla lavorativa.
Ho inseguito per anni la cultura. Vengo da una semplice famiglia di operai a cui devo la tenacia e l’amore per la libertà; metaforicamente potrei dire che mi hanno comunicato senza troppe parole, l’idea di navigare sempre nel mio mare ergendo la vela più grande e di scavalcare l’orizzonte per entrare in altri spazi. Quando ho aperto la porta al mio futuro, avevo speranze. Pensavo di poter raccogliere i miei sogni di bambina, diventare una giornalista o una scrittrice e coltivare l’amore per la scrittura. La prima sperimentazione del precariato l’ho fatta dopo la laurea: non me ne facevo un problema. Era naturale, era anche troppo “rassicurante” se pensavo ad amici che non avevano lavoro.
Di fronte all’amore e alla passione, i dettagli dei contratti di collaborazione, le limitazioni, l’idea di lavorare senza contributi, le “prestazioni occasionali”, passavano in secondo piano. Sei anni di contratti somministrati con una certa assiduità, poi sempre più rari e, intanto, sono passata dal silenzio degli archivi al “vociare” confuso delle classi della scuola primaria. La mia piccola imbarcazione ha cambiato rotta, sospinta dal vento della necessità a cui si collegano bisogni primari: la famiglia, un figlio, il mutuo!
Sulla nuova isoletta, apparentemente sicura ma piena di insidie nascoste, ho scoperto una nuova forma di precariato e ho dato un volto più umano agli stessi precari. Non ero sola, chiusa in un archivio o in una biblioteca, ma cominciavo a prendere coscienza che tante persone vivevano in una condizione “disumana”, appesi a una telefonata, con la percezione che il lavoro si riducesse a un “punteggio”, quasi un’assurda scalata tra altri numeri, altre matricole, qualcuna persino con un volto.
Questa nuova concezione del lavoro, bistrattata ma comunque entrata a far parte del sistema italiano, presuppone la presa di coscienza di una moderna alienazione, non intesa solo come estraneità del lavoratore al prodotto e all’attività che svolge, ma come conseguenza di un’instabilità di rapporti che genera demotivazione, angoscia, incertezza. Il precariato diventa uno status, il naturale modo di pensare non limitato solo all’ambito professionale ma che, pian piano, lentamente, si trasforma nella personale forma mentis, in cui il futuro non è una speranza ma un non-pensiero. È un’alienazione dal domani e dalla speranza che comporta un’apparente rassegnazione alla vita stessa. Apparente. In realtà, cela il coraggio di lottare anche senza diritti, di dare dignità a qualcosa che non è una garanzia.
“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, recita l’art. 1 della Costituzione Italiana.
Se mi ripenso in rotta nel mio mare, l’orizzonte acquisisce un significato che da piccola e da adolescente non avrei immaginato. O meglio, si aggiungono nuove sfumature. Non solo il poetico e idilliaco spazio da esplorare oltre la linea, dove nasce e muore il sole, piuttosto un “confine mobile”, qualcosa che si sposta se ti avvicini e non si lascia mai sfiorare. Forse, un metaforico senso di un precariato dal volto più umano.

30-06-2009


pubblicato su: http://www.filcams.cgil.it/NA/nanews.nsf/2c5e41f84b643c0a852564bc004a12ae/c08569c13bdffeadc12575e5003fd7b1!OpenDocument