venerdì 21 settembre 2012

Trasformare la casa in una biblioteca pubblica. Succede a Manila

Sfidare i pregiudizi e gli usi che si credono consolidati per il bene della comunità. La storia di oggi ha per protagonista Hernando Guanlao, un uomo di sessanta anni con la passione per la cultura che dodici anni fa ha deciso di mettere i suoi libri a disposizione dei passanti. Nessun furto, contrariamente alle aspettative, ma un aumento inspiegabile della collezione. È così che è nata questa piccola biblioteca “informale” diventata presto un punto di riferimento per la comunità locale, un luogo dove tutti possono accedere liberamente prendendo i libri che vogliono, anche per sempre. «L’unica regola è che non ci sono regole», ha spiegato in un’intervista alla BBC Guanlao, un metodo che in realtà ha portato a risultati sorprendenti: le persone – oltre a usufruire del servizio gratuito – hanno iniziato a donare volumi innescando un meccanismo automatico di condivisione. Nel 2000, poco dopo la morte dei genitori, Hernando ha deciso di promuovere la lettura per ricordare l’amore per la cultura trasmesso dal padre e dalla madre e onorare la loro memoria. Ha così reso di “uso pubblico” qualcosa di privato, la sua collezione di 100 libri, cresciuta fino a raggiungere tra i 2.000 e i 3.000 volumi grazie a donazioni di persone che hanno chiara l’importanza della cultura in un Paese come le Filippine, dove – nonostante la crescita dell’alfabetizzazione - le priorità sono altre. La biblioteca non è pubblicizzata, eppure un flusso costante di persone accede alla lettura facendosi strada nella casa di Hernando. Persino l’auto in garage è stata spostata per far posto ai libri! Hernando vive dei suoi risparmi e ha deciso di dedicare la sua vita alla piccola grande esperienza della biblioteca, cercando di diffondere l’iniziativa anche in altre parti delle Filippine, fino all’estremo sud. "As a book caretaker, you become a full man". Forse questa la chiosa più bella: essere custodi di un libro rende un uomo completo. L’essenza di fronte alla vita odierna che scorre.

Anche l’ONU si accorge dei militanti jihadisti tra le forze di opposizione siriana. Cade il mito americano della lotta al terrorismo?

In questo conflitto, non c'è un terreno neutrale. Se un governo aiuta i fuorilegge e gli assassini di innocenti, diventa fuorilegge e assassino. E intraprenderà una strada solitaria a suo proprio pericolo (George Bush). Tutti ricorderanno il discorso di Bush in salsa manichea all’indomani dell’11 settembre 2001, eppure oggi qualcosa non torna più. Di cose non ne tornano parecchie, ma conviene sottolineare la poca importanza data al recente rapporto delle Nazioni Uniti che conferma la presenza di stranieri tra le forze dell’opposizione siriana, non solo persone che spontaneamente decidono di partecipare a quella che qualche mese fa si voleva far passare per una nuova “primavera” araba, ma veri e propri terroristi appartenenti – come documentato dalla BBC Arabic (variante in lingua araba del canale britannico BBC World) ai battaglioni del cosiddetto Jabhat al-Nasra e ad un gruppo denominato “Jihadiya” o organizzati in cellule autonome. Lunedì scorso, a Ginevra, Paulo Sergio Pinheiro, membro della Commissione d´Inchiesta indipendente dell´ONU sulla situazione in Siria, ha condannato duramente gli “omicidi, le esecuzioni extragiudiziali e le torture” inflitte alla popolazione siriana dall’esercito ribelle. Un muro si rompe, dopo mesi di tentativi di far luce sulla complessa questione siriana, dove un balletto di cifre e un’informazione manipolata e persino “ritoccata”, continua a far leva su parole e propositi che ricordano altri avvenimenti, molti nemmeno troppo lontani. Una voce, quella delle Nazioni Unite, ufficiale: non più banali teorie antimperialiste, accuse di complottismo, guerra di fonti e attendibilità, ma il resoconto di un rappresentante dell’Onu chiamato a pronunciarsi sulla situazione siriana. C’è un legame con la Cia? Chi arma i ribelli? Il New York Times, già nel giugno di quest’anno, gettava ombre sull’intelligence americana, rivelando la strategia sottile adottata dalla Casa Bianca: agenti al confine tra Turchia e Siria per fornire armi provenienti dal Qatar, dalla Libia, dall’Arabia Saudita e coordinare i gruppi di ribelli. Il 3 settembre la voce di un accordo tra lo sceicco yemenita Tariq al-Fadhli (noto esponente di Al Qaeda) e Stati Uniti/Arabia Saudita, con l’invio di 5.000 combattenti jihadisti in Siria. Ad agosto il CFR (Council on Foreign Relations) elogiava l’abilità di combattimento e l’efficacia dei combattimenti di Al Qaeda, gli stessi accusati dagli Usa di aver sferrato il più duro attacco terroristico nella storia mondiale l’11 settembre 2001… e il CFR non è una semplice sigla: si tratta di uno dei più influenti think thank americani, con una rete di connessioni con il dipartimento di Stato Usa. Secondo il CFR, i ribelli siriani - per disorganizzazione interna - necessitano della presenza di Al Qaeda come guida, indispensabile per “disciplina, fervore religioso, esperienza di battaglia dall'Iraq, finanziamenti da simpatizzanti sunniti nel Golfo”. Cade il mito della rivoluzione spontanea e non pilotata dall’esterno, mentre si fanno pesanti le responsabilità dell’Occidente nella destabilizzazione dell’area mediorientale. Come ha ammonito in una recente intervista il Presidente della Commissione parlamentare per gli affari esteri russo, Aleksey Pushkov, la Siria potrebbe trasformarsi in un secondo Iraq, con estremisti musulmani che potrebbero arrivare al potere favoriti dalle forze occidentali. La prospettiva di abbattere uno stato comunque laico appare inquietante. Non semplice retorica dietro le parole di Pushkov, ma lucida e attenta analisi della situazione, considerando gli sviluppi delle fantomatiche primavere arabe e l’innestarsi di movimenti fondamentalisti che stanno ripristinando estremismi ben noti. Non a caso i cristiani di Aleppo organizzano gruppi di autodifesa armati dall’esercito di Assad e testimonianze critiche si alzano da agenzie di stampa cattoliche quali Fides che temono le persecuzioni post regime. I media tradizionali sembrano accorgersi finalmente della presenza di terroristi in Siria, senza dare troppa importanza agli avvenimenti o continuando a trattarli come episodi isolati dai contesti. Dovrebbe essere più chiaro ai convinti sostenitori dell’ennesima esportazione di democrazia, che non ci sia l'intento di prevenire una catastrofe umanitaria in Siria o istanze filantropiche. La questione siriana è molto più complessa, chi vuole continuare a ridurla a un evento "in superficie" può farsi una semplice domanda: chi combatte chi? http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=ugfcTCJbsF8 http://it.euronews.com/2012/09/17/onu-migliaia-di-jihadisti-nella-rivoluzione-siriana/ http://www.corriere.it/esteri/12_giugno_21/siria-agenti-segreti-cia_e98fec26-bba2-11e1-b706-87dd3eab4821.shtml http://www.alterinfo.net/notes/Syrie-Nombre-croissant-d-elements-etrangers-dont-des-islamistes-selon-l-ONU_b4730927.html http://www.infowars.com/cfr-strategist-praises-al-qaeda-bombings-in-syria/ http://www.guardian.co.uk/world/2012/jul/30/al-qaida-rebels-battle-syria http://english.ruvr.ru/2012_09_17/Islamic-radicals-will-grab-power-in-Syria-if-Assad-is-overthrown-official/ http://www.prisonplanet.com/al-qaeda-leader-strikes-deal-with-u-s-saudis-to-send-5000-fighters-to-syria.html

lunedì 17 settembre 2012

In Brasile nasce la “Bicicloteca”, una biblioteca a pedali… Per diffondere il messaggio che un libro può cambiare la vita

Un progetto che integra istanze pedagogiche e rispetto per l’ambiente e sta trovando ampia diffusione in diverse parti del mondo. Da San Paolo un’idea di democratizzazione della cultura e mobilità sostenibile. Nata per i senzatetto, la Bicicloteca oggi è estesa a tutti.
Un triciclo con una capacità di 150 kg., una sorta di scatola delle meraviglie moderna, che passa per le strade della città di San Paolo diffondendo il messaggio che un libro può cambiare la vita. L’uomo che è diventato il simbolo dell’iniziativa si chiama Robson Mendonça ed è un bibliotecario di 61 anni che ha le spalle un passato come senzatetto nelle periferie brasiliane. È stata la lettura de La fattoria degli animali di George Orwell a cambiargli improvvisamente la vita; dopo aver abbandonato per diversi anni la quotidianità e un’identità sicura e riconosciuta, Robson ha accettato l’invito di Lincoln Paiva, presidente dell’Instituto Mobilidade Verde (http://institutomobilidadeverde.wordpress.com/biciclotec,una ong che si occupa di sostenibilità ambientale) ad avviare una nuova iniziativa di "democratizzazione" culturale: ad agosto del 2011 la prima “bicicloteca” ed in seguito, grazie a donazioni private, il progetto si è esteso in maniera capillare alle periferie e alle aree delle città difficilmente raggiungibili attraverso i canali tradizionali delle biblioteche. Ha iniziato a macinare chilometri per le strade del centro, nelle piazze pubbliche fino alle zone malfamate di San Paolo, parlando con i senzatetto, raccontando la sua storia e l’incontro con Orwell, e permettendo ai poveri di usufruire della lettura di libri superando l’iter burocratico che rendeva difficile l’accesso a quel tipo di servizio: l’esibizione di un documento di identità che, chi vive per strada, non ha. A un anno di distanza, il bilancio è positivo. L’iniziativa ha conquistato anche studenti e lavoratori ed è stato inserito a pieno titolo in una serie di progetti che conciliano la democratizzazione della cultura e la mobilità sostenibile. Sono stati concessi in prestito 107.000 libri (anche in alfabeto Braille), è disponibile un deposito di 30.000 volumi, grazie anche al contributo delle donazioni private e tra i servizi offerti c’è anche la connessione gratuita ricorrendo all’energia solare. Piccole storie quotidiane dell'altra parte del mondo, storie che cambiano la vita, tra creatività e amore per l’essere umano.

sabato 5 maggio 2012

Venti latinoamericani: l’Argentina “nazionalizza” la Ypf, la Ue minaccia ritorsioni

Con tutto il peso che comporta il ripensamento del liberismo e della globalizzazione come strategie politiche oltre che economiche, l’Argentina ha “nazionalizzato” la Yacimientos Petrolíferos Fiscales, una società sussidiaria della compagnia petrolifera spagnola Repsol, privatizzata nel 1992 e un tempo compagnia di Stato, la cui gestione era affidata a una holding finanziata dalla BCE attraverso diverse banche (tra cui le italiane Unicredit, Intesa SanPaolo, Banca Popolare di Milano, Societe General, Credit Agricole, e l’Eni). Non propriamente una “nazionalizzazione” - trattandosi di una ripartizione del pacchetto azionario in cui lo Stato argentino ha acquisito il 51%, diviso tra il governo federale (26,3% delle azioni) e le province che producono petrolio nel paese (il 24,99%), mentre la parte restante va alla Repsol (circa il 7%) e a un’azienda privata, la Peterson - ma comunque un passo avanti nel cammino di riconquista della sovranità nazionale inaugurato da vari paesi latinoamericani. Il 4 maggio il sì definitivo del Parlamento argentino, con una maggioranza schiacciante, provvedimento che alimenta il dibattito sulla sovranità e l’autodeterminazione dei popoli. Nei suoi discorsi, Cristina Kirchner torna spesso sulla necessità di tutelare le risorse e i prodotti nazionali, parole che suonano sulla bocca di vari leader dell’America meridionale, assieme alla denuncia di colonizzazione da parte dell’Occidente. L’economia ripensata in questi termini, come ha sottolineato la Kirchner, si baserebbe sullo sfruttamento delle risorse nazionali per la crescita del Paese, riducendo le importazioni dall’estero ed in particolare da Stati come la Cina, da cui l’Argentina non importa prodotti. La riappropriazione dell’estrazione del petrolio, in questo caso, sancisce un passo avanti nella gestione statale delle risorse e infrastrutture del paese: esportatore per 17 anni l’Argentina era diventata dal 2011 importatore “netto”. A fronte della decisione, la Spagna ed l’Unione Europea hanno chiesto una compensazione di almeno 10 miliardi di dollari per l’espropriazione, giustificata dalla Kirchner con un non adeguato livello di investimenti.
Retorica? Redistribuzione del capitalismo sulle macerie di Stati europei che continuano a gemere sotto gli attacchi della crisi? O reale esigenza di riappropriarsi della sovranità nazionale? Intanto emerge un dato importante: la partecipazione della popolazione alle decisioni sulla gestione delle risorse dell’Argentina. Il progetto non è stato solo appoggiato dagli alleati della maggioranza (Nuevo Encuentro, Frente Amplio Progresista, Proyecto Sur, mentre non ha riscosso l’appoggio dei “macristi” e dei peronisti di destra), ma è stato fortemente sostenuto da organizzazioni “dal basso”, come sindacati e associazioni politiche e sociali. Riappropriazione degli spazi da parte dei cittadini ma anche prospettive aperte: non solo suggestioni in termini di lotta ideologica, ancor di più ripensamento delle strategie di redistribuzione delle risorse tra paesi.

Il valore di una vita: quanto “costa” uccidere un civile afgano?

Tariffari e disumanità ai tempi delle guerre 05 Maggio 2012 Nel suo libro Anatomia della distruttività umana, Fromm parlava di “trasformazione dell’impotenza nell’esperienza dell’onnipotenza” e vedeva nella guerra la possibilità, per ogni uomo, di “distinguersi” e rompere la monotonia della quotidianità. Una sorta di ritorno a un istinto che permetteva di trasformare l’uomo in cadavere ma anche di gestire e sperimentare una forma di potere sull’altro, l’ipotetico nemico costruito ad hoc. Rileggendo queste considerazioni, tornano alla mente le immagini del 2004 nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq, le scene di sevizie e di terrore, ma anche le più recenti fotografie che hanno fatto il giro del mondo sul conflitto in Afghanistan. Il 20 marzo, le immagini apparse su “Der Spiegel” hanno mostrato la disumanità delle guerre, ma ancor di più i complessi meccanismi di potere sulle popolazioni civili, obiettivi inermi di violenza tra forze che si contendono interessi e territori. I membri del «Kill Team», una sorta di squadrone della morte, mostravano corpi come trofei, dopo aver inscenato combattimenti per uccidere gratuitamente civili. Per riprendere l’osservazione di Fromm, la trasformazione dell’uomo in cadavere. Ma anche l’accanimento contro il cadavere per umiliare l’uomo. L’orrore delle stragi civili è apparso in tutta la sua drammaticità nello stesso periodo, a marzo di quest’anno, quando in un villaggio a sud di Kandahar sono state uccise 17 persone, tra cui numerosi bambini. I corpi sono stati ritrovati bruciati. L’episodio ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il dramma dei civili nelle guerre in maniera amplificata, “in diretta”, come siamo abituati a vivere la storia ai tempi di internet e dei mass media. Sono tornate alla mente le atrocità delle guerre balcaniche, scie di sangue che hanno aperto negli anni Novanta un ampio dibattito sulle vittime non militari nei conflitti moderni e hanno fatto affiorare una nuova sensibilità, anche in ambito storiografico, che ha permesso di rivalutare l’impatto delle violenze sulle popolazioni, il complesso rapporto con gli eserciti stranieri, la condivisione di bisogni primari e le atrocità commesse gratuitamente ai danni di persone inermi.
La guerra non più come conquista di un territorio e di uno spazio fisico, ma anche come gratuito sistema di violenza sulla vita dei “nemici”; si potrebbe dire atrocità presenti in tutte le guerre, ma con un impatto maggiore dovuto alla diffusione mediatica di immagini e filmati. Proprio in seguito al conflitto iracheno, tuttavia, in cui, stando a stime recenti ma non certo esaustive, americani e inglesi hanno lasciato sul terreno più di un milione di civili, si è innescato un vero e proprio sistema di risarcimento da parte degli Usa attraverso un tariffario su cui basarsi per “ri-pagare” le vittime. Già in Iraq l’elevato numero di vittime civili aveva spinto il Pentagono a dislocare sul territorio appositi uffici legali, dove avviare le pratiche per essere risarciti presentando la documentazione dei danni subiti. In Afghanistan, a febbraio, la Missione d'assistenza delle Nazioni Unite riferiva che le vittime civili nel 2011 ammontano a 3.021, rispetto ai 2.790 morti registrati nel 2010. Dal 2007 sono circa 12.000 le persone morte nel conflitto. Stesse modalità di risarcimento nel territorio afgano, dove il CMOC (Civilian Military Operation Center) si occupa di approvare a propria discrezione le richieste di risarcimento (considerate contributi di solidarietà) delle vittime civili, utilizzando criteri stabiliti. In caso di perdita di un parente, viene applicato il rimborso "per doglianza", denominato Foreign Claims Act (FCA) e inserito nel volume 10 del Codice degli Stati Uniti, che ammonta a 2.500 dollari e viene erogato in caso di perdita di beni, di danneggiamenti e lesioni fisiche. La cifra del “rimborso”scende a 1.000 dollari in caso di lesioni gravi e a 500 dollari per danni materiali. I fondi stanziati per i risarcimenti provenivano, nel caso dell’Iraq, dai beni sequestrati a Saddam Hussein, mentre per l’Afghanistan si fa ricorso al Cerp (Commander's Emergency Response Program), un programma stanziato dal governo statunitense per favorire progetti nel territorio. Non solo americani, ma anche tedeschi e inglesi risarciscono le morti dei civili, con cifre superiori. E l’Italia? Nel 2009 veniva uccisa, per mano italiana, la tredicenne Behooshahr a Herat. La somma versata dal governo, considerata un “equo risarcimento”, ammontò a 20.000 euro. Tariffari ai tempi delle guerre moderne, ma anche rovesci della medaglia per delineare un quadro a 360 gradi delle atrocità delle guerre. Qualche settimana fa l’indagine di Nicholas Kristof sul New York Times sui veterani di guerra: 6.500 suicidi ogni anno danno un’idea della drammaticità dei conflitti sull’uomo. Si tratta di una cifra elevata, “più del totale dei morti in combattimento di Iraq e Afghanistan messi insieme”. Semplicemente la guerra a “livelli”, come indagato da Fornari. Non solo lotta pseudo-manichea visibile, non solo guerra come evento, ma anche latente forza primordiale che spinge a costruire e lottare contro nemici costruiti interiormente, “terribili realtà fantasmatiche (…) che potremmo chiamare il Terrificante”. E l’orrore va in scena, spesso sotto mentite spoglie, quelle della pace.

mercoledì 2 maggio 2012

La Toscana approva l’uso terapeutico della cannabis. Una svolta anche in Italia

"Mi chiamo Lucia, ho 30 anni e la sclerosi multipla. Stavo su una sedia a rotelle, ora grazie alla cannabis cammino". Con queste parole, in una toccante lettera testimonianza che ha fatto il giro del web nel novembre 2011, si racchiudeva tutta la speranza riposta da alcuni malati di sclerosi nell’uso dei cannabinoidi nella terapia del dolore e si apriva un dibattito sulla somministrazione di sostanze stupefacenti come palliativi per alcune malattie. Lucia, assieme ad altri quattro pazienti, sperimentava gratuitamente il Bedrocan, farmaco ricavato da infiorescenze di marijuana, nell’ospedale di Casarano, in provincia di Lecce, sperimentazione resa possibile grazie a un decreto ministeriale (18/04/2007) e a una delibera della giunta regionale pugliese (308/2010). Nella lettera, la giovane donna descriveva i “miglioramenti evidenti ed eclatanti nell'andatura, nei tremori, nei dolori, negli spasmi muscolari, nella rigidità, nell'appetito, nell'umore e nel miglioramento totale della qualità di vita" e si augurava che diversi centri come quelli di Casarano riuscissero a sperimentare l’uso della cannabis a scopo terapeutico. Oggi il Consiglio Regionale della Toscana ha approvato l’uso sanitario della cannabis, da somministrare sia a casa che in ospedale a scopo terapeutico. E’ la prima legge regionale in materia, approvata già qualche giorno fa dalla Commissione sanità, con voto contrario di Pdl e Udc. L'assemblea si è pronunciata anche su una richiesta al ministero della Sanità di valutare se i cannaboidi siano da inserire nel tabellario farmaceutico. Oltre al rimborso dei farmaci, la legge regionale consentirà uno snellimento dei tempi burocratici con una somministrazione presso “le strutture del servizio sanitario regionale, Asl, strutture private (che erogano prestazioni in regime ospedaliero)”. Nel caso di Casarano, infatti, l’iter era molto complesso e partiva dalla prescrizione medica, passando per un’autorizzazione del Ministero della Salute che poi avviava una pratica in Olanda per il reperimento del farmaco somministrato ai cinque pazienti in ospedale. Nella relazione alla proposta di legge si è posto l’accento sull’efficacia farmacologica dei cannabinoidi, fondata "su acquisizioni scientifiche, sperimentazioni e pratiche cliniche sempre piu' diffuse a livello mondiale". Olanda, Canada e Stati Uniti, infatti, utilizzano da anni la somministrazione di cannabis per curare alcune malattie come la sclerosi multipla, la depressione e nel trattamento del dolore nei pazienti affetti da cancro.

venerdì 27 aprile 2012

Strategie ai tempi della crisi in Italia, tra baratto e moneta locale

Sopravvivere alla crisi attraverso forme di interscambio oltre la logica dello spreco e capaci di innestare movimenti di scambio locale. Nell’epoca globale e globalizzante, spinte centrifughe riconducono alla comunità come agorà di baratti ed esperimenti vari. Luoghi fisici e virtuali che diventano riferimenti in termini di superamento della difficile congiuntura economica. In parole semplici, sperimentazioni e iniziative ai tempi della crisi e, in una prospettiva di lungo periodo, esigenza di ripensamento delle soluzioni nazionali e sovranazionali. Localizzare come risposta alla crisi e ai suoi effetti devastanti? Sembra questa la strada percorsa, attraverso diverse prospettive, da comunità reali e virtuali in tutto il mondo. Già da diversi anni, l’incremento di forme di scambio alternative ha investito l’America, contagiando diverse realtà, dai Net Scavengers, più noti come gli spazzini della rete, alle monete complementari (ad esempio il wir creato in Svizzera nel 1934 da un gruppo di imprenditori per superare la crisi). Ad ottobre Ballarò si è occupato di forme di scambio senza soldi anche in Italia, concentrandosi su esperienze come quelle semplici di un atelier romano dove persone benestanti scambiano vestiti griffati, o sulla testimonianza degli utenti del portale di Zerorelativo.it, i barter, che barattano beni e servizi. Ma non solo queste esperienze. Nelle ultime settimane diverse le notizie in Italia che riguardano l’emergere di una forma mentis prima che di esperimenti, che superi la logica del consumismo e tenda a ri-pensare l’utilizzo degli oggetti e dei beni, da Bolzano ad Ogliastra, passando per l’esperienza collaudata della comunità calabrese di Riace. Lontani dai dibattiti che hanno investito filosofi e intellettuali sul valore del baratto e delle forme di scambio, persone comuni, a volte per necessità, altre per spirito di iniziativa, cercano di dare una risposta alla crisi, inaugurando un percorso di sviluppo sostenibile capace di coinvolgere piccole comunità o reti di persone che spesso non condividono luoghi “fisici”, ma semplicemente interessi e prospettive. Questi esperimenti, visti attraverso un’angolatura diversa, potrebbero in realtà portare a una riflessione sulla società in chiave di crescita non consumistica e al superamento di un sistema di produzione fine a se stesso. In un mondo dove lei risorse sono ormai in esaurimento e le future guerre si combatteranno in nome della spartizione di beni primari come l’acqua, la rivalutazione dell’importanza dei prodotti e del loro riutilizzo potrebbe inaugurare un nuovo rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Materia, quest’ultima, sostenuta da decenni da movimenti e gruppi anche noti. Senza entrare nella questione della decrescita, è invece interessante sottolineare come, sulla scia di esperienze collaudate e in una sorta di inversione dei tempi, anche in Italia si dia spazio a esperienze simili al baratto o comunque legate a un valore di uso diverso da quello proposto dalla moneta tradizionale. In alcuni casi si tratta di scambio semplice, senza vincoli di socialità, in altri si cerca di restituire centralità alle comunità locali, favorendone le interazioni. La creazione di un tessuto locale attraversato da una rete di scambi fuori dal valore convenzionale della moneta, permetter di superare la necessità di liquidità, favorisce l’interscambio locale e il recupero di una rete di socializzazione comunitaria o intercomunitaria. Come nel caso della proposta dello scrittore e giornalista Antonello Mangano e della giornalista Monica Piccini che hanno pensato a una app multipiattaforma volta a creare e gestire moneta locale creata da amministratori. Le vetrine virtuali permettono agli utenti di scambiare prodotti e servizi, grazie alla realizzazione di una rete basata sui contatti provenienti dai diversi social network. Si tratterebbe di un esperimento allargato alla rete di quelle che sono note come community currencies, basate su valuta non nazionale o sovranazionale, e sempre più diffuse anche in Italia. La sorpresa riguarda la presenza in quasi tutte le regioni italiane di monete locali, dal Buono Locale di Solidarietà Scec di Napoli al DANEE milanese, passando per il progetto Tau in Toscana alla banconota-voucher che circola nel Parco nazionale dell'Aspromonte, l’Eco-Aspromonte. Sempre in Calabria, saltato alla ribalta delle cronache come esempio di integrazione, il caso di Riace, comune che dall’anno scorso, per far fronte alle lentezze burocratiche dei finanziamenti a sostegno dei richiedenti asilo, ha iniziato a coniare cartamoneta particolare. Si tratta di bonus che permettono agli stranieri (indispensabili per la vita della comunità calabrese, soggetta a un massiccio calo demografico dovuto all’emigrazione), di comprare prodotti nei negozi locali, interagendo direttamente con la comunità e senza creare tensioni sociali dovute a condizioni di vita precarie. Gli stessi buoni vengono poi convertiti in soldi presso il comune nel momento in cui arrivano i fondi destinati agli immigrati. La Calabria, ma anche la Sardegna e il ritorno al baratto. Ad Ogliastra, dove la disoccupazione ha raggiunto il 17% e si assiste in questi mesi alla chiusura di piccole e grandi imprese. Scambi di prodotti semplici come il formaggio, il pesce, il foraggio, i capretti, rappresentano l’alternativa alla crisi e una forma di baratto all’interno della stessa comunità, ma anche scambio di servizi, come la costruzione di un sito web in cambio di un soggiorno nella struttura che ne usufruisce. Storie di persone comuni che si sono trovate faccia a faccia con la crisi e sono state costrette a contrastarne gli effetti attraverso la sperimentazione di vecchie forme di scambio. Economia del dono, contrapposta a quella di mercato, basata sul valore d’uso dei prodotti e dei beni più che sul valore di scambio. In quest’ottica un interessante esperimento a Bolzano, dove, sulla scia del progetto "Transition Town", fondato da Rob Hopkins, è stato inaugurato il negozio-non negozio “Passamano”. Si tratta di un’iniziativa vicina alla logica del “book crossing”, come spiega una delle promotrici, Gaia Palmisano, che permette ai clienti di portare oggetti superflui o inutilizzati in una sorta di piazza di scambio in cui non circola moneta, salvo la possibilità di donare contributi volontari per il mantenimento della struttura. Localizzazioni per fronteggiare la crisi ma anche per stabilire legami in chiave identitaria? Gli effetti della globalizzazione passano anche per un tentativo delle popolazioni locali di non essere asservite ai dettami della logica economica. Forse un primo passo per rimettere in discussione il sistema capitalista e le sue diseguaglianze.

martedì 24 aprile 2012

La Fiat non reintegra due lavoratori a Chieti. Riflessioni a margine sul “mercato” del lavoro

A leggere Lucio Gallino e la sua lunga intervista sulla lotta di classe dopo la lotta di classe, ci si accorge di quanto sia importante ripensare gli avvenimenti degli ultimi decenni in una chiave non solo storico-politica ma anche sociologica. La fine dei sistemi comunisti, non a caso al plurale se non vogliamo concentrarci esclusivamente sull’Unione Sovietica e la caduta simbolica del muro di Berlino, ha scavato un solco nella società italiana anche in termini di ripristino di una lotta di classe dove un’élite potente legata a lobbies imprenditoriali e bancarie cerca di riappropriarsi di privilegi persi in gran parte tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. “Privilegi” per alcuni “conquiste” per altri, dipende dai punti di vista, ma comunque sfaccettature di una logica che aveva risposto in gran parte al contenimento del comunismo e alla necessità di imprimere nelle classi operaie la sensazione che il capitalismo portasse benefici e risollevasse anche le fasce che ideologicamente combattevano quel mostro. Il raggiungimento di condizioni di vita migliori e meno precarie sembrava un traguardo, invece non era altro che il corollario di un’epoca, cominciata a decadere negli anni Novanta fino al nuovo secolo. La globalizzazione e la perdita dei ruoli di mediazione della politica e dei sindacati hanno fatto il resto; il mercato del lavoro è diventato sempre più asfittico e le ripercussioni sono state avvertite da chi – in termini non solo economici – pensava di aver raggiunto degli obiettivi. Obiettivi, aspettative, condizioni di vita. In una sola parola il “destino” citato da Gallino, non un termine astratto ma la possibilità concreta di “avere o no un buon livello di istruzione e poterlo trasmettere; poter scegliere o no dove e come abitare; vivere in salute più o meno a lungo; fare un lavoro gradito, professionalmente interessante oppure no; avere o non avere preoccupazioni economiche; dover temere oppure no che il più modesto incidente della vita quotidiana metta in serie difficoltà sé o la propria famiglia”. In queste parole si racchiude il confine tra quanti tendono a uniformare gli effetti della crisi: dietro una questione apparentemente economica si cela il declino del senso di riscatto, del senso del futuro, delle aspettative. E così, di fronte al caso della Sevel di Atessa, in provincia di Chieti, società automobilistica appartenente alla Fiat, si torna a riflettere sugli uomini come merce, usati e assoggettati alle logiche del mercato del lavoro. Due lavoratori interinali vengono licenziati nel 2008 e reintegrati a gennaio dal giudice del lavoro. Si tratta dei primi ricorsi con sentenza (le altre attese a maggio) di 150 dipendenti che hanno lavorato presso lo stabilimento con diversi contratti. Ad aprile ancora nessun reintegro, nonostante la decisione della legge. Melfi, Pomigliano, L’Aquila, Cassino con tutte le complesse vicende legate, i tentativi di quella che passerà alla storia come la “pomiglianizzazione” del lavoro, hanno rappresentato in tutti questi anni la prova tangibile di un Paese contraddittorio, dove gli aiuti statali vengono distribuiti a imprese senza reali prospettive per chi dovrebbe beneficiare degli effetti. Né i lavoratori né lo stesso mercato del lavoro. Dopo le esperienze di delocalizzazione in Asia e India, seguite da quelle nell’Europa dell’Est, ci si chiede quali siano stati i reali benefici apportati all’Italia, anche di riflesso. Le multinazionali e le imprese produttrici investono all’estero per il basso costo della manodopera e i vantaggi fiscali, ma il prezzo dei prodotti non sembra subire modifiche di rilievo. Burlati i consumatori, ma ancora di più i lavoratori. Nel caso della Sevel, la politica e i sindacati tentano di alzare la voce (Il consigliere regionale Saia del Pdci e il capogruppo dell’Idv alla Camera dei deputati, Massimo Donadi, il Prc), ma resta la considerazione che la riflessione sul mondo del lavoro dovrebbe essere più ampia. E magari ripartire dall’uomo e dal suo “destino”.