domenica 20 marzo 2011

La cricca dei cinici



Ci vuole molta fantasia a immaginare che in una democrazia normale si susseguano una serie di dichiarazioni in pochi giorni, anche su tematiche diverse, rilasciate o rubate ai fuorionda senza ripercussioni di alcun tipo. Fantapolitica di un’Italia sempre più trascinata in un vortice di miopia, oltre il verosimile, spesso grottesco, in cui l’unico interesse è il “consenso”, unico traguardo le elezioni, unica posta in gioco la tenacia a rimanere saldamente ancorati alle poltrone, senza altre condizioni.
Il trattamento dello Stato come affare privato, come prolungamento dei propri pensieri personali, quasi un dialogo tra conoscenti al bar è la norma, con tanto di teoria del marketing e dell’immagine… Peccato che essa non dovrebbe mai prescindere dall’immaginario collettivo, quella sorta di contenitore in cui Evelyne Patlagen considera difficile discernere il confine tra l’inconscio e il suo emergere al livello culturale o, per dirla con la storica Luisa Passeini, “luogo di conflitti, sia politici, sia psicologici, dunque di natura e individuale e collettiva, in una delle aree della comunicazione interumana”.
Un coacervo di sensazioni, spesso al confine tra realtà e immaginazione, che non possono essere trascurate, soprattutto da un uomo come B. che vive di sondaggi. E così, nel giro di qualche giorno, di fronte a quelle che sono state lette come tragedie dell’umanità, esce allo scoperto il cinismo di alcuni ministri dell’attuale governo. Un cinismo spudorato, che non teme controffensive di alcun genere. A loro è concesso tutto. La serie di dichiarazioni si commenta da sola.
Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, dopo la netta presa di posizione contro ogni ripensamento del governo di fronte alla scelta nuclearista, il 18 marzo afferma:
E’ finita, non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare. Non facciamo cazzate. Bisogna uscirne ma in maniera soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese
Paolo Romani, ministro dello Sviluppo Economico, dopo la pausa di riflessione “doverosa” di fronte al disastro di Fukushima, dà un giudizio sul referendum:
Abbiamo davanti un referendum drammaticamente impopolare per noi. È pericoloso ma se tutto andava come doveva andare ce la potevamo cavare.
E’ finita. Ce la potevamo cavare. Così perdiamo le elezioni. Perché la cricca dei cinici conosce meglio di quanto pensiamo gli umori del popolo italiano, beatamente assorto nel de profundis senza speranza di risveglio e slanci di dignità, ma sa anche quanto possa influire l’onda emotiva sui risultati delle urne. Sull’immaginario e le sue paure si sa, si costruiscono persino le guerre.
E cinismo anche di fronte all’intervento in Libia, dove i ministri seguono ognuno la linea più consona al proprio ruolo senza guardare la poltrona del vicino.
E così il Senatùr si sente autorizzato a rilasciare dichiarazioni come questa:
"Ci sono ministri che parlano a vanvera. Rischiamo il petrolio e un'invasione di immigrati"
“Se dovessi fare degli accordi non li farei con la Francia o con gli americani ma con un popolo amico che parla la nostra lingua come quello della Svizzera perche’ fare accordi con Paesi troppo forti non conviene basta vedere quanto sta accadendo con l’invasione di prodotti e supermercati francesi nel nostro Paese”. La richiesta esplicita di Bossi di seguire la linea di cautela della Germania, è stata presto avallata dallo stesso Premier che ha ribadito: "L'Italia offre basi e appoggio logistico alla "coalizione di volenterosi" che sta imponendo con la forza la 'no fly zone'.Coalizione di volenterosi, voltafaccia e giri di valzer, e il maldestro tentativo di rassicurare gli italiani per non perdere ulteriori consensi:''La Libia non ha armi in grado di raggiungere Italia''.


Tutta racchiusa qui la posizione del governo, mentre Gheddafi minaccia ritorsioni nel Mediterraneo e Lampedusa è al collasso. Più cinici di così.

domenica 19 settembre 2010

Il Mediterraneo "cimitero d'acqua", tra passato e presente


C’è stato un tempo in cui le rotte del Mediterraneo erano invertite. Dall’Italia si raggiungeva la Libia, per conquistare, per portare la “civiltà”, per “ritornare” dove era stata Roma, per aprire nuove strade all’immigrazione italiana. Un tempo nemmeno lontano, dimenticato, chiuso per comodità nel dimenticatoio o forse semplicemente tralasciato, come si ignora il passato di un’Italia che fino a qualche decennio fa emigrava.
Si andava in Libia arrogando diritti antichi, cercando le similitudini morfologiche, climatiche e persino somatiche soprattutto con i siciliani, si chiedeva un’Unità ancora più “dilatata” che comprendesse la conquista dell’altra sponda e di tutto ciò che era stato romano. La stessa posizione dell’Italia nel Mediterraneo, lungo ponte tra l’Europa e l’Africa, era un privilegio in chiave di spostamento di uomini.
I tempi cambiano, le idee restano, forse semplicemente si invertono. I libici cercano la loro “Terra Promessa” in Italia, la stessa che invocavamo noi in uno scambio di ruoli che oggi può sembrare paradossale. Perché c’è uno strano paradosso in tutto questo, c’è una strana inquietudine che non nasce solo da una considerazione storica, ma dalla lenta agonia del senso di umanità, la stessa che non sembra essere contemplata degli accordi italo-libici sul respingimento degli immigrati.
Qualche giorno fa Rocco Buttiglione, intervenendo alla rubrica “Il caffè” di Corradino Mineo, ha rassicurato gli italiani: “Alla Libia abbiamo dato navi, armi e munizioni”. Non sembra ci siano regole di ingaggio che contemplino l'intervento con armi da fuoco verso imbarcazioni pacifiche. Non sembra.
Sull’episodio della motovedetta libica che ha sparato sugli italiani il ministro Maroni ha chiuso la questione con un: “Pensavano che a bordo ci fossero dei clandestini”. Come se fosse lecito e normale sparare ad altezza uomo agli immigrati.
Qualcuno avanza l’ipotesi dell’avvertimento: non addentrarsi nella zona grigia, dove i respingimenti avvengono con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Ci sono in ballo interessi economici.
E così viene da chiedersi se la stessa l’Italia che non vuole clandestini accetti che si lascino morire nel deserto disidratati o ammazzati nel Mediterraneo senza pietà; se l’Italia cattolica non debba fare i conti con la propria coscienza e anche seriamente. Oppure se esistono morti di serie A e morti di serie B. Ma qui si smarrirebbe l’essenza dell’uomo stesso. Come dire, abbiamo perso l'umanità ma continuiamo a cercare Dio.
C’era un’antica e tetra leggenda sui morti nel Mare Nostro, lu scïò, «una cortina plumbea di montagne nere», non formata da nuvole, ma da «una ressa di miliardi d’anime accorse da ogni mondo e compresse l’una sull’altra in tal maniera che forarne lo strato è impossibile», la «spada di Dio», mossa da «una suprema giustizia» che fa colpire solo quelli che meritano, che raccoglie le anime di «quelli a cui noi marinai facemmo torto in vita», ma anche degli spiriti dei «nemici vivi e di tutti coloro che vogliono nuocere ai marinai» perché «è il demonio che ve li incastra».
Con queste parole, dense di inquietanti suggestioni, lo scrittore Milanesi raccoglieva, nel lontano 1918, la leggenda raccontata da un marinaio di San Benedetto. L’idea del Mediterraneo come immenso «cimitero d’acqua», luogo di morte più che di vita, permea la letteratura del Novecento: mare brulicante di sacchi di cadaveri, teschi comparsi sulle rive del mare nostro, la corrente infinita descritta da Pascoli che “recava le voci di Menfi, di Babilonia, di Ninive, di Atene, di Pergamo, di Alessandria, di Hierosolima”, le ombre del mare che rievocano i combattimenti di Roma e Cartagine.
Per la stesso, a tratti inquietante, capovolgimento di prospettive, ci abitueremo ad ascoltare voci provenienti dalle “antiche sponde libiche”, quelle per cui gli italiani hanno un tempo versato il sangue. In fondo, le voci degli uomini sono tutte uguali. Solo le voci.

venerdì 10 settembre 2010

“Neonata tolta alla madre povera”. L’Italia dei buonismi di massa?


Si fa presto a giudicare. E si fa ancora più presto a vendere una notizia con titoloni capaci di attirare l’attenzione dei lettori. In un improvviso e vorticoso giro di pensieri, scatta il buonismo italiano. Tutti si indignano, tutti gridano che è vergognoso, tutti sbraitano contro lo Stato e le sue inefficienze, e poi, tutti tornano sereni e tranquilli dimenticandosi dell’avvenimento.
“Neonata tolta alla madre perché povera”. La notizia è di luglio, gli sviluppi recenti. Il Tribunale di Trento ha dichiarato la neonata adottabile ed ha iniziato un affidamento preadottivo. Al di là delle considerazioni e dei tempi prettamente giuridici, la riflessione dovrebbe scavalcare “il titolo” in sé e allargarsi a più considerazioni.
Va bene che la giustizia in Italia non sempre funziona, ma l’informazione non dovrebbe limitarsi a fare audience, come accade sempre più spesso. L'assessore provinciale alle politiche sociali della Provincia autonoma di Trento, Ugo Rossi, già a luglio, in una lettera indirizzata al ministro Carfagna, aveva sottolineato che non era corretto pubblicare notizie che andassero “a screditare il lavoro del Tribunale e dei servizi sociali accusati di faciloneria, insensibilità e ingiustizia. Non possiamo far passare il messaggio che e' sufficiente essere economicamente in difficoltà per vedersi sottrarre un figlio o che le Istituzioni puniscano anziché aiutare le persone indigenti'”.
Il nocciolo è tutto qui: non far passare il messaggio che la povertà sia un pregiudizio. Non mi sembra che in Italia lo sia, tanto meno che si sottraggano facilmente figli alle madri. Anzi, si può affermare il contrario. Spulciando in giro per news, si trova solo qualche timido cenno alle relazioni stilate dai servizi sociali precedentemente il parto, all’instabilità e “povertà” emotiva, alla fragilità della donna. Bisognerebbe conoscere i dettagli, ma in Italia interessano a pochi. E’ più facile darci dentro coi luoghi comuni e i pregiudizi, prendersela con lo Stato e la giustizia, quasi a fare del singolo episodio uno sfogatoio personale. E qui sono d’obbligo due storie vissute.
G. , 7 anni, cammina ogni mattina per i vialetti della scuola tra le parolacce della madre, sottolineo italiana, una litania che l’accompagna fino all’entrata in aula, tra gli sguardi indignati dei buonisti e i vani tentativi di segnalazione. Disagi familiari, disturbi del comportamento, occhi spenti mentre cerca di giocare in giardino prendendo a botte i compagni di classe.
M., 7 anni, cucina il ragù, si prende cura del fratellino di 2 anni, sa preparare la torta di zucca, come nella tradizione del suo Paese. L’hanno vista andare a fare spesa con un orsacchiotto tra le mani quando scendeva la sera. Non ha un’infanzia, si legge questo nei suoi occhi.
A quest’età, le lungaggini burocratiche ti tolgono il diritto a vivere serenamente la parte spensierata della vita, quella in cui dovresti imparare a sognare. In questi casi, tutti i buonisti pronti a invocare la soluzione inversa: perché i servizi sociali non ci sono? E lo Stato? Lo Stato ha fallito?
Non si tratta di giudicare, ma di valutare. L’Italia delle soluzioni facili è sempre a portata di mano e, aggiungerei, di click. La maternità è un diritto, ma ancor di più l’infanzia.
Forse basterebbe solo un cambio di prospettive: il minore al centro degli interessi, sempre.

mercoledì 8 settembre 2010

L’Italia “inventata”, tra sentimentalismi e nostalgie



La Lega avanza anche nel centro Italia e Bossi invoca un ritorno immediato alle urne. Un fenomeno politico sottovalutato? Si potrebbe dire di sì. Alla fine degli anni Novanta, neppure tanto tempo fa, in un’intervista rilasciata a Paolo Rumiz, Carlo Tullio Altan considerava improbabile che l’idea di Padania attecchisse nell’immaginario italiano in maniera tale da influenzarne la vita sociale e politica.

Dopo dodici anni, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, il peso elettorale della Lega e la capacità di influenzare attraverso discorsi retorici e populistici moltissimi italiani lascia emergere il volto di un Paese che ripensa le sue stesse categorie identitarie.

Non c’è mai stato il tempo di “fare gli italiani” o forse gli avvenimenti storici hanno finito per indebolire l’idea stessa di Nazione. Costruita in maniera labile e in continua oscillazione tra nostalgie e invenzione di tradizioni, l’Italia è sempre più frantumata in un mare di spinte localistiche, dalla politica “urlata” della Lega, la degenerazione più evidente della crisi culturale italiana, a un Mezzogiorno che volge lo sguardo a un idilliaco passato.

Un Paese fragile, a due marce, sempre più rannicchiato in patine nostalgiche, dove la globalizzazione finisce per marcare localismi e rimpianti. E proprio nella fase in cui si chiedeva al sistema partitico italiano uno sforzo per combattere la crisi, per accettare la sfida dell’Europa, per imprimere coesione al Paese, si sono smarriti i ruoli di mediazione. La società civile non si sente più rappresentata; in una spirale vertiginosa, partiti, sindacati e istituzioni socioculturali hanno perso credibilità.

Ci stiamo abituando a vedere lavoratori inventare nuove forme di protesta, nella completa indifferenza delle istituzioni; ai giornalisti e agli intellettuali si chiedono alternative valide, quelle che dovrebbero far parte di un programma politico, alla gente comune il contenimento della rabbia o l’improvvisazione di soluzioni. In questo quadro sconcertante, l’Italia “inventa” le sue tradizioni, per dirla con Hobsbawm e Gellner, o riesuma nostalgici richiami a un passato perduto, fatto di glorie e successi, utilizzandolo in chiave fortemente emotiva.

Un magma confuso di sentimenti e inquietudini, su cui la Lega Nord ha saputo costruire una demagogia fatta di demonizzazione di un “nemico” generico e/o specifico verso cui far confluire le paure e i dubbi spesso generate dalla necessità di ripensare la società. Ora gli immigrati irregolari, ora i comunitari, prima Roma ladrona, poi le moschee, il cous cous, i meridionali, altrove i gay.

Un movimento, la Lega, in realtà senza tradizione con un programma in cui si mescolano il richiamo a riti pagani celtici, come quello dell’acqua del Po raccolta in un’ampolla e versata nella Laguna di Venezia, la costruzione di un’area geografica caratterizzata da un idioma gallo-italiano, riti attinti dal passato come il giuramento di Pontida.

Alla fine, vince sempre chi fa leva sulle paure della gente, perché ognuno preferisce chiamare verità le cose che gli fanno comodo. Ri-pensare la storia d’Italia partendo dai localismi e dalle nostalgie?

Matvejevic direbbe che «il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia». Figurarsi un passato “inventato”.

sabato 17 luglio 2010

Per la Chiesa la pedofilia è un “delitto contro il costume”



La sospensione delle idee. A leggere il documento Normae de gravioribus delictis, redatto dalla Congregazione per la dottrina della fede in sostituzione dell’istruzione Delicta Graviora emanata nel 2001, si prova un misto di incredulità e di tristezza. Non c’è più nemmeno spazio per l’indignazione, a quella ci si abitua lentamente; sembra essere diventata una costante della società attuale. Una lunga e prolungata somministrazione di dosi quotidiane di piccoli, grandi risentimenti che sta portando all’eutanasia del pensiero, della critica, del sentire in ogni ambito, politico, sociale, culturale.

Abbiamo assistito in questi mesi a una campagna di “normalizzazione” del fenomeno pedofilia passata attraverso l’individuazione di altri “nemici” a cui guardare, proclami contro il complotto anticlericale orchestrato da chissà quale entità, strenua difesa degli embrioni e, senza paura di toccare il fondo, deformazione dell’omosessualità, fatta apparire come una malattia e un disagio per chi la vive discretamente: tutto per distogliere l’attenzione, tra deliri e anacronismi, tra posizioni ufficiali e ufficiose di cardinali e vescovi, senza una presa di posizione netta e decisa, se non quella delle parole e delle scuse. Come se bastassero.

In 31 articoli, la Sacra Congregazione traccia le linee guida per giudicare “i delitti contro la fede e i delitti più gravi commessi contro i costumi o nella celebrazione dei sacramenti”: in primis “contro la santità dell’augustissimo Sacrificio e sacramento dell’Eucaristia”, della penitenza, quello “più grave di attentata sacra ordinazione di una donna”, e - finamente - all’articolo 6:

1. I delitti più gravi contro i costumi, riservati al giudizio della Congregazione per la Dottrina della Fede, sono:
1° il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore di diciotto anni; in questo numero, viene equiparata al minore la persona che abitualmente ha un uso imperfetto della ragione;
2° l’acquisizione o la detenzione o la divulgazione, a fine di libidine, di immagini pornografiche di minori sotto i quattordici anni da parte di un chierico, in qualunque modo e con qualunque strumento.
§ 2. Il chierico che compie i delitti di cui al § 1 sia punito secondo la gravità del crimine, non esclusa la dimissione o la deposizione.


Un delitto contro il costume, liquidato in poche battute, come quando lo stupro era “qualcosa”che offendeva il pubblico pudore. Qualcosa, un quid, perché in questi termini si liquida la faccenda, in maniera asettica, quella dei documenti ufficiali emanati speriamo non sotto dettatura dello Spirito Santo.
Non si vuole attaccare la fede, che merita sempre rispetto. Quella prescinde “dagli uomini”, come precisano tutti i cattolici, tuttavia questa sorta di giustificazione, che a tratti appare oggettivamente “leggera”, regge se si è disposti a farsi processare come “uomini”. Invece, come specificato in una nota di Padre Lombardi, “trattandosi di norme interne all’ordinamento canonico, di competenza cioè della Chiesa, non trattano l’argomento della denuncia alle autorità civili”.
Di fronte all’alleggerimento, ufficiale ed ufficializzato, di un delitto considerato “contro il costume” e non contro la dignità della persona, viene da chiedersi se questa che stiamo vivendo non sia solo la parte superficiale di un fenomeno molto più esteso. E qui forse ci si aspetterebbe una netta denuncia, un’ammissione di colpa e soprattutto la solidarietà, da parte della comunità cattolica “dal basso”, a quanti sono “stati violati”. E, invece, il dubbio di non veridicità, di manipolazione, di complotto, il silenzio opaco e inspiegabile o - sottovoce – parole sminuite e smentite dagli atti ufficiali.
Non si sente il grido della Chiesa degli uomini, quelli che dovrebbero semplicemente mostrarsi indignati, perché non va difesa solo la vita “concepita”, ma anche quella vissuta. Non si sente la Chiesa del grande respiro evangelico, quella di Gesù e dei suoi insegnamenti. Non si sente nemmeno la voce austera e ridondante della Chiesa dei concili e delle scomuniche. Non c’è bisogno di arrivare alle crociate o ai roghi, basta fare un salto nel dopoguerra italiano o rispolverare le posizioni sempreverdi contro l’aborto.
Disarmante e angosciante allo stesso tempo, ma soprattutto offensivo per le vittime. A noi, comuni mortali, non resta che ricordare Giovenale: "Nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza". Magra consolazione, ma non si vede una via d’uscita diversa.

venerdì 18 giugno 2010

Josè Saramago, La cosa Berlusconi



Non vedo che altro nome gli potrei dare. Una cosa che assomiglia pericolosamente a un essere umano, una cosa che dà feste, organizza orge e comanda in un paese chiamato Italia. Questa cosa, questa malattia, questo virus minaccia di essere la causa della morte morale del paese di Verdi se un conato di vomito profondo non riuscirà a strapparlo dalla coscienza degli italiani prima che il veleno finisca per corrompere le loro vene e per squassare il cuore di una delle più ricche culture europee.

I valori fondamentali della convivenza umana sono calpestati tutti i giorni dai piedi appiccicosi della cosa Berlusconi che, tra i suoi molteplici talenti, ha un’abilità funambolica per abusare delle parole, sconvolgendone l’intenzione e il senso, come nel caso del Polo della Libertà, come si chiama il partito con il quale ha preso d’assalto il potere. L’ho chiamato delinquente, questa cosa, e non me ne pento. Per ragioni di natura semantica e sociale che altri potranno spiegare meglio di me, il termine delinquente ha in Italia una valenza negativa molto più forte che in qualsiasi altra lingua parlata in Europa.

Per tradurre in forma chiara ed efficace ciò che penso della cosa Berlusconi utilizzo il termine nell’accezione che la lingua di Dante gli dà abitualmente, sebbene si possa avanzare più di un dubbio che Dante qualche volta lo abbia usato. Delinquere, nel mio portoghese, significa, secondo i dizionari e la pratica corrente della comunicazione, “atto di commettere delitti, disobbedire alle leggi o ai precetti morali”.

La definizione combacia con la cosa Berlusconi senza una piega, senza un tirante, fino al punto da assomigliare più a una seconda pelle che ai vestiti che si mette addosso. Da anni la cosa Berlusconi commette delitti di varia, ma sempre dimostrata, gravità. Per colmo, non è che disobbedisca alle leggi, ma, peggio ancora, le fa fabbricare a salvaguardia dei suoi interessi pubblici e privati, di politico, imprenditore e accompagnatore di minorenni, e in quanto ai precetti morali non vale neppure la pena parlarne, non c’è chi non sappia in Italia e nel mondo intero che la cosa Berlusconi da molto tempo è caduta nella più completa abiezione.

Questo è il primo ministro italiano, questa è la cosa che il popolo italiano ha eletto due volte per servirgli da modello, questo è il cammino verso la rovina a cui vengono trascinati i valori di libertà e dignità che permearono la musica di Verdi e l’azione politica di Garibaldi, coloro che fecero dell’Italia del secolo XIX, durante la lotta per l’unità, una guida spirituale dell’Europa e degli europei. Questo è ciò che la cosa Berlusconi vuole gettare nel bidone della spazzatura della Storia. Gli italiani, alla fine, lo permetteranno?