giovedì 23 gennaio 2014

L’altra Libia. Quello che i media non hanno mai detto



La Banca centrale della Libia apparteneva alla Libia, a differenza della maggior parte di quelle del mondo occidentale. Era posseduta al 100% dallo Stato, senza la presenza di quote detenute da banche speculative o da azionisti privati. La Libia, esattamente come Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran, non era membro della Banca dei Regolamenti Internazionali con sede in Svizzera, la banca centrale di tutte le banche centrali che aveva raccolto l’adesione di 56 Paesi.
Negli ultimi anni prima della destituzione, Muammar Muhammad al-Gaddafi aveva minacciato l’espulsione delle compagnie petrolifere occidentali per favorire la totale nazionalizzazione del settore. Nella Libia del sanguinario dittatore ed oppressore delle masse, la casa era considerata un diritto umano imprescindibile e le giovani coppie venivano sovvenzionate con 60.000 dinari (pari a 50.000 dollari statunitensi) per l’acquisto del primo immobile. Secondo dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tutt’altro che vicina a infatuazioni gheddafiane, l’apporto calorico procapite giornaliero era pari a 3144 chilocalorie e i tassi di mortalità infantile erano calati da 70 a 19 nascite su 100.000 nel 2009, mentre l’aspettativa di vita era passata da 61 a 74 anni nello stesso periodo.
L'assistenza medica era libera per tutti e di alta qualità: se i libici non riuscivano a trovare cure appropriate in patria, il governo forniva un sussidio per curarsi fuori dal paese. Grandi cambiamenti erano stati registrati anche nel campo socio-culturale: prima del 1969, solo il 5% della popolazione sapeva leggere e scrivere; nel 2009 il tasso di alfabetizzazione era salito all’83%. Il 25% possedeva un diploma universitario e chi dopo la laurea non riusciva a trovare un lavoro, percepiva un salario pari al valore medio di quello relativo alla professione esercitabile. Il prezzo del pane era basso, quello degli alimenti indispensabili sempre controllato; l’energia elettrica in Libia era libera per tutti, i prestiti avevano lo 0% di interessi e in caso di acquisto di un’automobile, il governo corrispondeva il 50% del costo. Ogni libico che sceglieva l’attività di agricoltore riceveva la terra libera, una casa, animali, sementi e attrezzature agricole.
All’indomani della famigerata rivoluzione libica, i primi atti dei ribelli, quelli che sbandieravano lo spettro di una Libia migliore e più giusta, osannati dalle diplomazie mondiali e salutati come liberatori dai media di mezzo mondo, non sono di certo stati a favore della popolazione. Nell’aprile 2011 sopraggiungeva. nemmeno inaspettato. un accordo con il Qatar per la vendita del petrolio libico. Nessuna sorpresa se a farla da padroni siano stati gli storici amici degli Usa. La stessa Banca Centrale finiva nelle mani degli investitori stranieri: in una situazione paradossale, la distruzione attraverso i bombardamenti dei portatori di democrazia e pace, si portava dietro un risvolto già programmato: chi prestava il denaro per finanziare la ricostruzione corrispondeva a chi aveva saccheggiato e distrutto la Libia. Il riconoscimento del FMI spalancava la porta a investitori stranieri.
Il 1 luglio 2011, 1,7 milioni di persone marciarono nella piazza verde di Tripoli per protestare contro i bombardamenti della NATO e manifestare la propria fedeltà a Muammar Muhammad al-Gaddafi. Su 5 milioni di abitanti, si trattava di una percentuale non certo trascurabile, tranne per i media occidentali impegnati a osannare improbabili liberazioni, a diffondere l’immagine bufala delle fosse comuni e a inventare immaginari reperti di guerra. Viene da chiedersi se ci sia un legame tra i colpi di Stato orditi dalla Cia e la caratteristica che accomuna i Paesi oggetto di destabilizzazione: sistemi bancari pubblici e non affidati a banche private. Tornano alla mente Cuba, l’Iran, il Guatemala, il Venezuela, l’Ecuador, democraticamente eletti ma soggetti a continui tentativi di rovesciamento ad opera dell’America perché non assoggettati ai diktat imposti dall’imperialismo. Ma l’Iraq, la Libia e più recentemente la Siria, dovrebbero aver acceso i riflettori sull’anomalia dell’informazione occidentale. Sempre più braccio di un imperialismo becero che si fa forza con facciate buone e umanitarie: organizzazioni filantropiche, figure di spicco idolatrate dalle masse, attivisti che si occupano di diritti umani a intermittenza.
Il giochetto sembra non aver funzionato per la Siria. I media mainstream sono stati costretti, in maniera subdola e meschina, ad allinearsi alle argomentazioni sostenute da quelle che – fino ad agosto – erano considerate nicchie antimperialiste, pro-assadiste o genericamente complottiste. L’orchestrazione della propaganda di guerra si è avvalsa anche stavolta di un dibattito appiattito, senza possibilità di replica e affidato alla voce di intellettuali, ong, pennivendoli e mercenari dell’informazione. Eppure si è fatta strada nell’opinione pubblica la necessità di comprendere in profondità gli eventi.
Crollati i primi muri, svelate le contraddizioni, smascherate le bufale, il teatrino ha iniziato a non reggere e si è addirittura rivoltato contro chi pensava di trarne profitto. Eppure nessuno ha mai smentito. Nessuno ha mai chiesto scusa per le notizie manipolate, le falsità propagandate, il martellante ricorso a armi di distrazione di massa o di costruzione di nemici non funzionali all’Occidente. Stesso copione, persino stessi attori. In attesa dell’attacco di un altro “Stato canaglia”, resti almeno la lezione.

http://www.youtube.com/watch?v=4KSWJU5Abk8&feature=player_embedded
http://www.who.int/countryfocus/cooperation_strategy/ccsbrief_lby_en.pdf
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=26686
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=25206

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